Senza lasciare traccia
Gianclaudio Cappai, dopo aver realizzato un cortometraggio vincitore al Festival di Torino nel 2007 (“Purchè lo senta sepolto”) e un mediometraggio presentato al Festival di Venezia nel 2009 (“So che c’è un uomo”), esordisce nel lungometraggio con “Senza lasciare traccia”, in cui si cimenta con una storia di fantasmi del passato che devono essere affrontati per poter vivere un presente difficile, che richiede l’elaborazione di un antico fatto traumatico. Bruno è sposato con Elena, e pur avendo subito un intervento non è riuscito ad estirpare dal suo corpo un tumore, i cui effetti non tardano a farsi sentire. Elena fa la restauratrice e viene chiamata a lavorare su un quadro dal soggetto enigmatico e inquietante. Bruno decide di accompagnarla: attraverso alcuni fugaci flashback veniamo a sapere che proprio in quel luogo, molto tempo prima, era accaduto un evento funesto che avrebbe segnato inesorabilmente la vita del protagonista. Bruno pareggia a suo modo i conti con il passato, dando finalmente sfogo a una rabbia che da sempre lo ha dilaniato, e che ritiene essere la causa psichica della sua brutta malattia.
Interessante e ambizioso questo progetto del regista cagliaritano, a cui, tra gli altri, partecipa in veste di attore anche Vitaliano Trevisan, che i più ricorderanno in quanto protagonista di “Primo amore” di Matteo Garrone, e questo dato svela che in molti hanno creduto nel valore di una sceneggiatura di non facile realizzazione.
Cappai rivela una discreta visionarietà - particolarmente riuscite, in questo senso, sono le sequenze della fornace - con cui tenta di dare forma alla vita interiore del protagonista, vista la reticenza nel fornire elementi attraverso cui ricostruire i fatti che costituiscono la premessa dell’intera vicenda.
La batteria simbolica messa in scena (il quadro dal soggetto cupo, il cavallo morente, la magmatica location della fornace) sembra seguire una tradizione autoriale ben radicata (il primo riferimento che viene in mente è quello del cinema del russo Tarkovskij), deliziando a tratti lo sguardo dello spettatore, che pur fatica, data la volontaria omissione di taluni indizi diegetici, a muoversi nel fitto mosaico del passato del protagonista. Pare, anzi, che ci sia stato un certo compiacimento nel trattenere la narrazione, probabilmente perché si è ritenuto inappropriato dare un’eccessiva visibilità a una materia che richiedeva, per sua natura, di essere sottratta ai riflettori, ed essere evocata attraverso rare e incisive pennellate, senza accondiscendere al furore di un fantasmatico pubblico ansioso di conoscere i fatti fino in fondo.
Non capiamo esattamente cosa accadde quel giorno al piccolo Bruno, comprendiamo però che fu un episodio dolorosissimo, una violenza intollerabile, e questo è quanto basta; il regista imbriglia la macchina da presa, segnalandoci un fuori campo da cui riverbera un orrore che non può trovare una forma che lo contenga: sarebbe stato davvero ingenuo, d’altronde, cedere a tale tentazione, e, dunque, Cappai dimostra maturità di sguardo.
Non mancano, di contro, alcune lacune e sbavature, il film fatica a decollare, a destare l’attenzione, eppure non si può non elogiare il coraggio di un esordiente che orgogliosamente non si allinea al piattume visivo contemporaneo.
La frase:
"Taluni si lasciano morire. Io no, sono uno che reagisce".
a cura di Luca Biscontini
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