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Un anno da ricordare











L’ippica e il cinema è un connubio che funziona. Quando il cavallo è dato per sfavorito, e alla fine, contro tutti i pronostici, comincia a vincere, ecco che il film ha già acquistato una situazione di partenza ed una finale. Nel mezzo ci si mette la storia di chi gli sta accanto, che sia il fantino, l’allenatore o il proprietario, ognuno con la propria storia e la propria voglia di riscatto. Per rendere il tutto credibile però agli occhi degli spettatori c’è la necessità di basarsi su una storia vera. Si corre con i cavalli fin dall’antichità, dai giochi dell’Antica Grecia alle bighe romane, impossibile non trovare qualche storia adatta ad una trasposizione su grande schermo. Dopo "Seabiscuit" e "Hidalgo", solo per rimanere agli esempi più recenti, ecco quindi "Un anno da ricordare", storia di dei de cavalli reputati più forti della storia di questa disciplina, l’americano "Secretariat" (nome che inoltre dà il titolo alla versione statunitense del film).
Anni ’70, Penny Tweedy, la figlia di un importante allevatore di cavalli della Virginia, prende in gestione l’attività di famiglia dopo la morte della mamma e dopo la malattia del papà, sempre più incapace di rimanere in contatto con la realtà. Nonostante si parli di un’epoca recente, le donne non erano ancora accettato nell’ambiente delle corse ippiche come dei referenti autorevoli.
Lottando contro i pregiudizi e gli ostacoli messigli davanti dalla stessa famiglia (un marito che la preferirebbe a casa e un fratello che vorrebbe vendere tutto per monetizzare), Penny riesce a costruire una bella squadra di professionisti (allenatore, stalliere e fantino) attorno ad un giovane puledro su cui si baseranno tutte le speranze future dell’allevamento per non andare incontro al fallimento economico e cadere in mano dei creditori. La sua scommessa, inutile dirlo (parliamo di una pellicola Disney basata su una storia vera), si rivelerà vincente.
Negli Stati Uniti Secretariat è una vera celebrità, conosciuta bene o male da tutti coloro nati dagli anni ’60 in poi, così come la sua proprietaria, Penny Tweedy. La loro storia non è "originale" per quasi nessuno, i risultati delle corse sono noti, l’obiettivo quindi della pellicola non è il raccontare quali corse abbiano vinto, ma il come ci siano arrivati, rendere "il mito" tridimensionale andando a mostrarne la vita al di là dell’ippodromo. Per fare questo c’è bisogno però di una storia parallela con una certa sostanza, ed è proprio qui che il film fa difetto. Si insiste un pochino sugli scrupoli di Penny Tweedy (interpretata dalla brava Diane Lane), sul suo essere mamma e moglie assente in nome del sogno e dell’ambizione del papà, ma senza convinzione, così come lo spettro del possibile crac finanziario non appare mai così vicino ed inquietante. I personaggi di contorno, dall’eccentrico allenatore interpretato da uno John Malkovich sempre in forma, alla presente e coscienziosa aiutante Miss Ham, passando per il fantino aggressivo e il fido stalliere Eddie (a cui, purtroppo, gli sceneggiatori riservano delle scandenti scene e battute da "credente-santone" del gruppo), servono a rendere un po’ più colorata e carnosa la vicenda, ma vivono tutti in superficie, a nessuno di loro viene data profondità. Il regista Randall Wallace (che da sceneggiatore firmò Braveheart) fa il suo: rende fluido il racconto, gira bene le scene delle gare, aggiungendo insolite e movimentate soggettive del cavallo alle solite inquadrature da film di genere, ed indovina inoltre la scelta di raccontare l’ultima corsa, la più importante, ricorrendo completamente alle immagini di repertorio viste dai familiari di Penny davanti al televisore, legandosi così anche visivamente alle esperienze del pubblico americano di allora, le stesse che hanno contribuito a rendere la leggenda di Secretariat un vero e proprio simbolo nazionale. Il risultato è una pellicola dai buoni sentimenti, ben confezionata e mediamente emozionante (bene o male i successi di Secretariat, anche se previsti, fanno palpitare), perfetta sintesi della locuzione "film per famiglie".

La frase:
"Non vivrò il resto della mia vita nel rimpianto".

a cura di Andrea D'Addio

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