Scream 4
Forniti d’immancabile senso dell’umorismo, non potevano ricominciare altro che da un attacco verbale al sadico mito di "Saw" lo sceneggiatore Kevin Williamson e il regista Wes Craven, riappropriatisi della figura del misterioso omicida Ghostface a undici anni da "Scream 3" (2000), mediocre terzo capitolo – di sicuro a causa dello script firmato dal sopravvalutato Ehren Kruger – della saga horror simbolo degli anni Novanta.
Già, perché se il bellissimo capostipite puntava al ribaltamento delle regole dello slasher-movie e i due seguiti giocavano rispettivamente con quelle dei sequel e delle trilogie, stavolta, mentre assistiamo al ritorno a Woodsboro per la sopravvissuta Sidney Prescott alias Neve Campbell, nel frattempo divenuta autrice di un libro di auto-aiuto, la serie di delitti operata dietro la maschera ispirata a "L’urlo" di Edvard Munch viene scandita su divertenti frecciatine a tutto ciò che ha caratterizzato i film dell’orrore d’inizio XXI secolo.
Quindi, nuovo decennio, nuove regole, e, man mano che tornano in scena anche David Arquette e Courteney Cox nei panni dello sceriffo Linus e di sua moglie Gale, si parte sbeffeggiando l’abusatissimo stratagemma del film nel film per approdare alla prima legge dei remake, ovvero non cambiare mai il finale originale; passando, però, per accenni ad alieni, fantasmi di ragazzine asiatiche e zombi (c’è perfino un omaggio televisivo a "L’alba dei morti dementi" di Edgar Wright).
E Craven, che c’invita ironicamente ad apprendere sia che i poliziotti di scorta sono sempre destinati a morire, sia che nei nuovi horror si salvano solo i gay (!!!), sembra autocitarsi non solo attraverso una battutina riguardante il primo "Scream", ma anche nel momento in cui tira in ballo una tutt’altro che disprezzabile sequenza di tensione ambientata in un garage, proprio come avvenne già nel suo licantropico "Cursed-Il maleficio" (2005).
Tutt’altro che disprezzabile come un po’ tutte le altre, dal classico massacro pre-titolo a quella che si svolge durante la maratona "Squartati", distribuite a dovere nel corso di circa 111 minuti di visione (non pochi, dunque) al fine di coinvolgere in maniera efficace lo spettatore, senza annoiarlo mai.
Ma, soprattutto, senza dimenticare di legare l’insieme ad un tanto intelligente quanto affascinante messaggio di denuncia nei confronti della squallida generazione telematica del terzo millennio, affamata di popolarità perché pericolosamente esposta al perverso potere dei media.
Un messaggio che solo un maestro del genere (seppur discontinuo) poteva sfornare sfruttando il quarto tassello di un’epopea all’insegna del "Indovina chi è l’assassino".

La frase:
- "Non è divertente"
- "Perché non è una commedia, è un film horror, c’è chi vive e chi muore".

Francesco Lomuscio

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