Saideke Balai
La storia dell’umanità è costellata da lotte per la libertà e per l’onore e a volte, anzi molto spesso, tali episodi, purtroppo sempre sanguinosi e cruenti, ispirano gli artisti tanto da diventare anche un soggetto adatto al cinema come in questo caso. "Saideke Balai", realizzato da Te-Sheng Wei racconta la storia "dell’Incidente di Wushe" del 1930 che ha macchiato di rosso la bellissima e selvaggia Taiwan.. Opera terza di Wei si impone come un kolossal, prodotto oltretutto da John Woo, non solo, ma è anche uno dei film più costosi prodotti a Taiwan con un budget di circa 25 milioni di dollari. Una pellicola che ricorda da vicino "L’ultimo dei Mohicani" del 1992 regia di Michael Mann, ma al tempo stesso anche molte altre pellicole come "Braveheart" del 1995 diretto e interpretato da Mel Gibson, fino a richiamare alla memoria, per la bellezza dei paesaggi, per le tematiche di libertà, di comunione e di rispetto per la natura e per gli spiriti degli antenati, il capolavoro del 2009 di James Cameron: "Avatar". Ha però l’aspetto e la struttura tipici dei blockbuster americani, perdendo involontariamente a volte il ritmo e diventando ridondante e roboante in una sequenza interminabile di battaglie e di morti. La sua vera forza sta nel non aver paura di eccedere, di diventare a volte ridicolo teso com’è ad esaltare questo popolo guerriero umiliato dai conquistatori. E’ il 1895 quando la Cina cede al Giappone il controllo di Taiwan e a farne le spese è ovviamente la popolazione, in particolare le tribù dei guerrieri Seediq Bale. Umiliati, derisi subiscono angherie di ogni tipo, tanto che con la scusa di renderli "civilizzati" gli viene impedito di cantare e danzare, di seguire le loro tradizioni imponendo con la forza una cultura e una religione che non riescono né vogliono fare propri. L’odio nei confronti dei rappresentati del Sol Levante diventa come brace che alimenta i cuori di questi cacciatori che trovano una guida nell’attempato capo e combattente Mouna Rudo che riunisce alcune tribù e dà inizio alla ribellione. "Saideke Balai" pone l’accento sulla grandezza di questi uomini che hanno combattuto contro il vasto impero giapponese per difendere il proprio onore e la propria identità, con l’intento di portare alla luce una pagina ormai dimenticata di storia nazionale. La fine è prevedibile, tuttavia le diverse battaglie sono intervallate da momenti di riflessione e dialogo da cui emergono figure poco caratterizzate, ma soprattutto la saggezza della cultura orientale, la sua poesia, che trova espressione nei canti e nei balli e nell’ammirazione e rispetto per la natura. A inficiare l’opera è, però, la netta distinzione fra bene e male operata dal regista, per cui gli indigeni ovviamente sono i buoni, mentre i giapponesi sono ovviamente e inevitabilmente i cattivi, incapaci di sentimenti e redenzione. Il ritmo è serrato, pochi i momenti di pausa, a dominare è la lotta, lo spirito e i valori che spingono a sacrificare tutto, anche se stessi. Come ha spiegato lo stesso regista Wei Te-Shang: "Qui la guerra è qualcosa che va al di là della violenza, perché definisce l'onore e l'identità di questo popolo. Era costituito soprattutto dai cacciatori: è a loro, al modo in cui concepivano la battaglia, che mi sono rifatto per mettere in scena l'epica. Anche se non escludo l'influenza dell'action americano, di cui come voi sono stato spettatore".
La frase:
""Loro hanno più uomini dei sassolini nel fiume, ma io sono grande come la montagna"".
a cura di Federica Di Bartolo
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