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The ring
Un videotape che mostra immagini da incubo. Una volta visto arriva una telefonata che annuncerà la morte dell'incauto spettatore entro sette giorni. Questa l'idea principale del film "The Ring" diretto da Gore Verbinski. La pellicola comincia con l'ultimo giorno, appunto il settimo, in cui una giovane studentessa confessa ad una sua compagna che durante un week end è stata partecipe di quell'esperienza visiva insieme al suo ragazzo. La coetanea non gli crede fino a quando non scoccano le dieci di sera, ora fatidica in cui la premonizione si avvererà spietata e irreversibile. Rachel Weller (Naomi Watts / "Mulholland Drive"), zia della sventurata e giornalista in carriera, si appassionerà al caso. Accompagnata da un figlio introverso (David Dorfman / "Bounce") e da un ex compagno (Martin Henderson / "Windtalkers") a cui i vestiti del padre stanno troppo stretti intraprenderà la sua indagine fino al ritrovamento del videotape assassino e, incredula del fatto, si sottoporrà lei stessa alla visione. Inevitabilmente il telefono squilla annunciando la profezia. Ora avrà sette giorni per far capo all'intricato labirinto fatto di visioni, fantasmi, manicomi, cavalli impazziti, bambine diaboliche e quant'altro, tutto questo per riuscire a scoprire il significato del titolo: "The ring - l'anello".
Terza opera del regista Gore Verbinski, già autore di "Un topolino sotto sfratto" e "The Mexican", sotto l'ala protettiva della Dreamworks (Spielberg & Co.), questa volta ci prova con un horror, remake di "Ringu", un film giapponese del 1998. Anche se lo spunto del videotape è intrigante la narrazione perde di sprint, inciampa, s'ingarbuglia fino a riportare i personaggi nello stesso luogo in cui inizia la vicenda, dove viene ritrovata la cassetta, movimento sottolineato anche da una frase della protagonista in una scena: "Siamo tornati allo stesso punto di prima", infatti. Manca l'atmosfera, quell'impegno che ti inchioda alla poltrona per un ora e mezza con il nodo in gola, i momenti orrorifici sono caratterizzati dalle solite visioni di volti raccapriccianti posti nell'elemento "quandomenoteloaspetti" diventando subito dei cliché. Per non parlare della superficialità con cui il regista tratta i rapporti familiari dei tre, basti pensare che Martin Henderson si viene a scoprire che è il padre del ragazzino dopo quaranta minuti di film in una frase quasi involontaria. Ma a Verbinski non pare che questo interessi molto, forse il suo passato di regista pubblicitario, linguaggio legato all'importanza dell'immagine ma assente di contenuti, lo ha indirizzato per questa via riuscendo a penalizzare una Naomi Watts che era stata cosi intensa ed enigmatica nel capolavoro di David Lynch "Mulholland Drive", qui invece racchiusa in una mimica facciale alla Meg Ryan.
"Tutti gli horror si basano su un idea semplice. Il modo in cui essa viene sviluppata può elevarli al di sopra di film di genere, ma questa è tutta questione di abilità." Così recita Gore Verbinski parlando della sua opera, ma per noi quello che a lui manca è proprio l'abilità. Ritenta sarai più fortunato.
Marco Massaccesi
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