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Rambo: Last BloodLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio17 settembre 2019Voto: 7.0
Si comincia nel mezzo di un'alluvione e, senza perdere tempo, ritroviamo Sylvester Stallone nei panni di John Rambo, reduce del Vietnam portato per la prima volta sul grande schermo nel 1982, alle prese con l’arroganza dello sceriffo Will Teasle alias Brian Dennehy in “Rambo” di Ted Kotcheff, tratto da un romanzo di David Morrell.
Il John Rambo che, prima ancora di dedicarsi al salvataggio di missionari finiti prigionieri in un campo militare birmano nell’omonimo lungometraggio diretto nel 2008 dallo stesso Stallone, aveva provveduto a ricercare dei prigionieri statunitensi in Vietnam in “Rambo 2 – La vendetta” di George Pan Cosmatos e a calarsi nell’Afghanistan invaso da soldati sovietici in “Rambo III” di Peter MacDonald, rispettivamente datati 1985 e 1988 e destinati a consacrarlo in maniera definitiva come eterno eroe americano che l’ex presidente Ronald Reagan scelse in qualità di simbolo. Eterno eroe che, ora impegnato a condurre una vita tranquilla nel ranch di famiglia, rischia non poco di rispecchiare buona parte del pensiero del Donald Trump eletto nel 2016 alla Casa Bianca, considerando che si trova costretto a rispolverare le proprie abilità di guerriero dal momento in cui la giovane nipote putativa Gabrielle, incarnata dalla televisiva Yvette Monreal, viene reclutata nel commercio sessuale di ragazze gestito da un temibile cartello messicano. Perché, comprendente un violento attacco con martello all’interno della struttura in cui si svolge l’attività di prostituzione e che tanto ricorda una sequenza del dramma proto-“Taxi driver” “A beautiful day” di Lynne Ramsay, questo quinto tassello si distacca del tutto dalla tipica struttura da war movie che aveva caratterizzato i precedenti per sfruttare, inaspettatamente, un plot da film di vendetta sulla chiara falsariga di “Io vi troverò” di Pierre Morel. Un plot che il nuovo arrivato dietro la macchina da presa Adrian Grunberg – autore di “Viaggio in paradiso” con Mel Gibson – costruisce, infatti, evitando il prevedibile rimescolamento di elementi rambiani già collaudati e ricorrendo tutt’altro che all’abbondanza d’azione e spettacolarità tipiche della saga, in realtà qui principalmente relegate nell’ultima fase della circa ora e quaranta di visione. Un’ultima fase che, rispecchiando gli eccessi splatter che provvidero a rendere più realisticamente vicino alla traballante situazione a stelle e strisce post-11 settembre il citato quarto capitolo, non risparmia nulla in fatto di ferocia nello svolgersi soprattutto in un tunnel sotterraneo, sguazzando in mezzo a teste tagliate, trappole disseminate e corpi infilzati in qualsiasi modo immaginabile. Regalando allo spettatore un massacro tanto impressionante quanto liberatorio come avviene quando ci si trova dinanzi alla fruizione di uno slasher movie e capace, con immancabili esplosioni incluse, di ripagare pienamente per la lunga attesa tempestata di diversi piccoli allarmi su cui si basa tutta la prima parte dell’insieme; nel corso della quale non ci si abbandona mai a facili sentimentalismi e buonismi e viene anche tirata in ballo la giornalista indipendente Carmen Delgado che, interpretata da Paz Vega, avrebbe magari necessitato di un maggiore approfondimento. E i titoli di coda scorrono nostalgicamente sulle immagini delle pellicole che hanno costituito la pentalogia. La frase dal film:
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