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Quartet











Non è da tutti esordire alla regia a settantacinque anni con una carriera da attore alle spalle tra le più prestigiose e ricche della storia del cinema. Si può essere presuntuosi e dare per scontato che tanti anni di set siano da soli sufficienti per avere imparato a dirigere ed infine, una volta che il film è arrivato al pubblico, ritrovarsi con la critica che scrive aspramente: "Se non aveva ancora esordito alla regia una ragione quindi c'era".
Con "The Quartet" Dustin Hoffman riesce a schivare questa trappola.
Sarà che la sceneggiatura, presa da una piéce teatrale di Ronald Harwood, ha pochi punti deboli, sarà perché fin dall'inizio ha avuto in mente di girare una commedia all'inglese, affidandosi quasi completamente a battute ben riuscite e alla bravura degli attori, ma il suo è un film garbato, fluido, piacevole come un buon bicchiere di vino a fine cena.
La storia è quella di quattro ex cantanti lirici che si ritrovano in una casa di riposo per soli musicisti (ispirata a quella vera Giuseppe Verdi di Milano). Tra di loro ci sono storie, amori e delusioni passati, nonostante tutto la musica continua ad unirli e davanti all'incedere del tempo non si può fare altro che mettere da parte gli screzi.

Dustin Hoffman segue le loro gesta riuscendo sia a trasmettere il suo amore per la musica che rappresentando con delicatezza la vecchiaia e la voglia di vivere e provare emozione a prescindere da tutto. Non c'è facile drammatizzazione degli eventi o retorica a basso costo, nessun personaggio è macchietta. La ciliegina sulla torta di un film così ben riuscito sono le interpretazioni di Tom Courtenay, Pauline Collins, Maggie Smith e, soprattutto, l'eccezionale Billy Connolly, troppo poche volte visto sul grande schermo. Sarebbe bello vederlo più spesso così come a questo punto ci si aspetta un Dustin Hoffman regista atto secondo.

La frase:
"Questo non è una casa di riposo, è un manicomio!".

a cura di Andrea D'Addio

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