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Quale amore
Il giallo, il thriller o semplicemente il noir a sfondo morboso è stato di sicuro uno dei generi maggiormente cavalcati dai cineasti nostrani nei gloriosi, ormai lontani Anni Settanta, attraverso esempi di celluloide più ("Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave") o meno riusciti ("La gatta in calore"), spesso d'imitazione argentiana.
Nell'epoca dei King of the B's alla Mostra del Cinema di Venezia e della rivalutazione ad ogni costo di tutto ciò che in maniera snob venne a suo tempo stroncato o addirittura ignorato a priori, proprio a quell'oggi dimenticato sottofilone sembra per certi versi riallacciarsi la terza fatica per il grande schermo di Maurizio Sciarra, di cui abbiamo sentito parlare soprattutto per "Alla rivoluzione sulla due cavalli", vincitore, tra l'altro, del Pardo d'oro al Festival di Locarno 2001.
Quindi, traendo liberamente spunto dalla "Sonata a Kreutzer" di Lev Tolstoj e sostituendovi la Russia della grande nobiltà terriera con l'odierna Svizzera dell'alta finanza internazionale, ecco prendere forma la storia del giovane Andrea (Giorgio Pasotti), rampollo di una ricca e potente famiglia, il quale, scontata all'interno di un manicomio criminale parte della pena inflittagli per aver assassinato la moglie Antonia (Vanessa Incontrada), famosa pianista che abdicò alla propria carriera artistica per amore, si trova a raccontare la sua travagliata vicenda ad uno sconosciuto (Arnoldo Foà), in un grande aeroporto bloccato da una tempesta di neve (nel testo letterario, invece, ciò avveniva nel corso di un interminabile viaggio in treno), nell'attesa di partire per gli Stati Uniti, dove incontrerà i suoi figli per la prima volta dopo l'uxoricidio.
Con una confezione tecnicamente impeccabile (lodevole in particolar modo la fotografia di Alessio Gelsini Torresi), Sciarra ricorre allora ad una struttura narrativa tutt'altro che classica, supportato anche dalla fondamentale colonna sonora di Lele Marchitelli ("Ma che colpa abbiamo noi") che commenta il progressivo evolversi della relazione tra i due protagonisti, conosciutisi ad un concerto di lei e destinati ad entrare profondamente in contrasto, dopo il matrimonio e tre figli, soprattutto dal momento in cui nella loro vita entra il talentuoso violinista Daniel Chavarria (Andoni Gracia), il quale sembra permettere alla donna di riprendere a suonare e, di conseguenza, a vivere.
Perché è proprio il binomio musica-gelosia a scandire un racconto per immagini in movimento le cui principali tematiche sono la possessione dell'altro e la lucida e aberrante necessità di certezze assolute, mentre il cast, che comprende anche la veterana Maria Schneider, svolge discretamente il proprio dovere (e, per i fan del mediasetiano "Zelig", la Incontrada appare spesso e volentieri svestita).
Peccato, però, che il lento incedere non sempre riesca a coinvolgere pienamente nella visione, trasformandosi in vera e propria noia man mano che ci avviciniamo all'atteso momento dell'omicidio, il quale, rozzamente messo in scena, non manca di comicità involontaria, oltre a lasciarci tranquillamente intuire che, a differenza dei succitati titoli, il peggior difetto dell'intera operazione sia individuabile nel voler essere a tutti i costi pretenziosa...
La frase: "La famiglia è stata la più grande illusione".
Francesco Lomuscio
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