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Pitza e Datteri











La pacifica comunità musulmana di Venezia viene sfrattata dalla propria moschea e la vede trasformata in un salone di bellezza, attività svolta dalla donna che ha richiesto lo sfratto. Arriva dunque dall'Afghanistan, in aiuto dei fedeli cacciati, un imberbe ed inesperto imam che tenterà di recuperare il prezioso locale, tuttavia i vari e goffi tentativi falliscono miseramente e comicamente. Un aiuto inaspettato però ribalterà la situazione permettendo ai nostri eroi musulmani di ottenere un nuovo luogo di culto.
Sebbene gli intenti e l'idea siano buoni, non bastano comunque a salvare la pellicola da un naufragio assoluto. Stavolta il regista curdo Fariborz Kamkari decide di affrontare un argomento piuttosto scottante e, rifacendosi alla nobilissima tradizione della Commedia all'italiana (per sua stessa ammissione), tenta di esorcizzarlo attraverso il riso: purtroppo non ci è riuscito.
Il film, in effetti, presenta alcuni tratti del canone sopra citato, come ad esempio il fondamentalismo del veneziano Bepi (Giuseppe Battiston), che appare un invasato religioso pronto per una italica jihad; a tal proposito come non ricordare quella sequela di personaggi provincialotti, italianissimi e anche un po' patetici che, una volta toccata con mano una realtà diversa da quella delle mura domestiche annerite dalla stufa economica, diventano una caricatura di sé stessi e di coloro che tentano di emulare: l'inglesissimo Alberto Sordi in Fumo di Londra (Alberto Sordi, 1966) o, sempre per citare Sordi, “l'americano” più americano degli americani “veri”, Nando Moriconi di Un americano a Roma (Steno, 1954). Ma, proprio per rispettare quei canoni che attraverso il riso sovvertivano l'ordine sociale costituito e istituzionalizzato, immediatamente venivano mostrati i limiti di questi omiciattoli la cui partecipazione ad una cultura diversa da quella di “mammà” è tutta di superficie. Bepi è esattamente questo: un italiano che gioca a fare il musulmano e più tenta di essere ligio e fedele e più risulta goffo, ridicolo e anche fasullo.
A parte questa particolarità non si può dire che il regista abbia del tutto compreso cosa sia la Commedia all'italiana; più che ad un film comico, si assiste ad una pièce da Commedia dell'arte: tanto sono piatti i personaggi da sembrare delle maschere fisse a cui far recitare (male in alcuni casi) delle battute che non hanno alcuna giustificazione. Non vi è approfondimento psicologico, gli sviluppi sono praticamente inesistenti rendendo la visione un grosso guazzabuglio di situazioni pasticciate da una non meglio specificata idea che porta lo spettatore a chiedersi continuamente dove si voglia arrivare a parare. Mancano i nessi, le giustificazioni e lo stesso epilogo risulta lacunoso e buttato lì come un cavolo a merenda. Va bene la comicità, va bene il riso, tuttavia, trattandosi di una tematica molto attuale e spesso fonte di polemiche, ci si aspettava una complessità maggiore, una maggiore cura nei dettagli (e quanta ce n'era nella Commedia all'italiana!), uno spessore maggiore per questi poveri personaggi sballottati di qua e di là nella meravigliosa cornice di Venezia, da secoli incrocio peninsulare tra Oriente e Occidente.
Lungi dal voler fare un “rogo delle vanità”, bisogna riconoscere che ogni tanto si ride, Battiston sa fare il proprio mestiere e riesce a salvare, con parsimonia, una sceneggiatura che fa acqua da diverse parti. Notevole la colonna sonora composta dalla band multietnica de L'orchestra di Piazza Vittorio che ci regala momenti assai intensi mescolando generi musicali diversissimi e, di primo impatto, difficilmente accostabili.
A parte questo... vederlo o meno non fa alcuna differenza.

La frase:
"L'Occidente è molto strano, ogni cosa semplice diventa complicata qui".

a cura di Danilo Raggiunti

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