Padroni di casa
A nove anni dall’esordio registico rappresentato da "B.B. e il cormorano" (2003), il livornese classe 1975 Edoardo Gabbriellini torna dietro la macchina da presa per raccontare la vicenda dei fratelli piastrellisti Cosimo ed Elia, i quali, rispettivamente con i volti di Valerio Mastandrea ed Elio Germano, partono da Roma per ripavimentare la terrazza della casa sull’Appennino tosco-emiliano in cui vive il cantante Fausto Mieli, ritiratosi dalle scene in seguito a una grave malattia che ha costretto la moglie Moira alias Valeria Bruni Tedeschi su una sedia a rotelle.
E, a quarant’anni dalla sua ultima fatica cinematografica, rappresentata da "La cosa buffa" (1972) di Aldo Lado, è il mito della canzone popolare tricolore Gianni Morandi a concedere anima e corpo a quest’ultimo, che accetta di tornare a esibirsi in pubblico per sostenere la promozione turistica.
Mentre, senza dimenticare una citazione verbale de "L’orca assassina" (1977), sono in particolar modo i duetti tra Germano e Mastandrea – anche sceneggiatore del film insieme allo stesso regista, Francesco Cenni e Michele Pellegrini – a rappresentare la principale fonte di divertimento dei circa novanta minuti di visione che, in realtà, puntano tutt’altro che alla leggerezza.
Non a caso, al di là del fatto che l’iniziale clima da commedia appaia comunque venato dal dramma che affligge la famiglia Mieli, man mano che i fotogrammi scorrono non solo viene accennato il difficile passato di Cosimo, ma Elia comincia anche a frequentare una ragazza del posto; provocando la gelosia di un coetaneo innamorato di lei e facendo accrescere, inevitabilmente, il sentimento di diffidenza che la piccola comunità ha sempre manifestato nei loro confronti.
Perché, all’interno di un racconto per immagini che, in verità, non presenta cattivi, sono i montanari a incarnare i padroni di casa del titolo; nel corso di un incontro-scontro tra due diverse mentalità che non può fare a meno di richiamare alla memoria, a tratti, il cult d’oltralpe "Calvaire" (2004) di Fabrice Du Welz.
Un incontro-scontro che, quindi, finisce per testimoniare la valenza socio-politica dell’operazione, destinata a sfociare in una tragica seconda parte ricca di tensione e decisamente atipica per il triste e stantìo panorama cinematografico italiano d’inizio terzo millennio, sempre più lontano dal sostantivo "genere".
Con risvolti inaspettati e una regia all’altezza che, capace soprattutto di generare la necessaria, malata atmosfera, contribuisce in maniera fondamentale alla riuscita di un elaborato volto a ribadire che le cose e le persone non sono mai ciò che sembrano, meritando piena attenzione sia dal pubblico che dalla critica.
Bravo Gabbriellini!
La frase:
"Sapete com’è, qui siamo gente un po’ chiusa, montanari".
a cura di Francesco Lomuscio
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