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Pacific Rim











Per chi non ne conoscesse il significato, una didascalia spiega la differenza tra jaeger, ovvero enormi robot antropomorfi, e kaiju, i giganteschi mostri giapponesi che, visti all’interno di infinità di pellicole di fantascienza "post-Godzilla" (1954), troviamo in azione già nel corso del lungo prologo – da storia del cinema d’intrattenimento – del lungometraggio in 3D che segna il ritorno dietro la macchina da presa per il messicano Guillermo del Toro, a cinque anni da "Hellboy 2: The golden army" (2008).
Tra l’altro, al di là dello spagnolo Santiago Segura – noto soprattutto per il suo divertente personaggio del commissario Torrente – coinvolto in un piccolo ruolo, nei panni di un grottesco affarista troviamo il Ron Perlman che ha incarnato sullo schermo proprio il rosso supereroe infernale nel corso della oltre ora e cinquanta di visione il cui esile plot, in fin dei conti, risulta un semplice pretesto per poter sfoggiare la moltitudine di eccellenti effetti speciali.
Un semplice pretesto proprio come lo era già ai tempi delle continuazioni del citato capolavoro diretto da Ishiro Honda, allegoria di celluloide tipicamente anni Cinquanta relativa alla paura nei confronti della bomba atomica, qui riletta privilegiando le possibili, negative conseguenze dell’inquinamento.
Del resto, oltre a non apparire affatto assenti elementi orientali, a partire dalla soldatessa alle prime armi Rinko Kikuchi che affianca l’ex pilota di Jaeger Charlie Hunnam nella lotta contro le legioni di creature aliene emerse dagli abissi per distruggere la Terra, è proprio alla memoria del citato papà del lucertolone radioattivo e all’indimenticabile mago dell’effettistica in stop-motion Ray Harryhausen che il film è dedicato; man mano che, tra presentazione dei diversi personaggi e abbondanza d’azione, è impossibile non riconoscere nel mostro marino dotato di chele un probabile omaggio all’Ebirah che fece il suo esordio ne "Il ritorno di Godzilla" (1966) di Jun Fukuda.
Perché, con un respiro generale che non si distacca poi molto da quello che caratterizzò il riuscito "Independence day" (1996) di Roland Emmerich, è chiaro che l’intento dell’autore de "Il labirinto del fauno" (2006) sia soltanto quello di rievocare nostalgicamente, attraverso le moderne tecnologie della celluloide a stelle e strisce, quelle stesse emozioni provate, con notevole scorta di ingenuità infantile, ai tempi dei pupazzoni di cartapesta impegnati a devastare modellini di Tokyo.
E, senza rinunciare a un pizzico d’indispensabile ironia e a un’ultima sequenza posta durante i titoli di coda, lo fa confezionando un movimentato prodotto d’intrattenimento che, impreziosito da combattimenti immersi in maniera affascinante in toni dark (quasi horror), sembra essere destinato non solo a rivelarsi uno dei suoi migliori lavori, ma anche uno dei più coinvolgenti esempi di entertainment hollywoodiano d’inizio XXI secolo... che può fare tranquillamente a meno delle tre dimensioni, come ne potevano fare a meno le vecchie imprese dei kaiju.

La frase:
"Tutti noi oggi cancelleremo l’apocalisse".

a cura di Francesco Lomuscio

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