Onirica - Field of Dogs
Lech Majewski è noto per essere una personalità poliedrica, che sa destreggiarsi con abilità in tutti, o quasi, i campi dell’arte, spaziando dalla pittura alla poesia, dalla scrittura all’opera e alle attività di compositore e di regista teatrale e cinematografico. Nel 2004 ha realizzato "Il giardino delle delizie", primo film di una trilogia che si ispira ad alcuni grandi maestri del passato, iniziando da Hieronymus Bosch, passando per Pieter Bruegel ("I colori della passione – The Mill & The Cross", 2011) ed approdando, infine, al nostro Dante Alighieri, la cui Divina Commedia ha stimolato il regista polacco a realizzare quest’opera dal suggestivo titolo "Onirica".
E, infatti, il film si muove sul limen che separa la realtà dal sogno: dal giorno in cui ha perso la sua donna e il suo migliore amico in un incidente d’auto, Adam ha perso ogni ragione per sentirsi vivo, e piuttosto che agonizzare da sveglio preferisce passare la maggior parte del suo tempo a dormire, per ricongiungersi in sogno con chi gli è stato portato via. Gli unici contatti sentiti col mondo dei vivi, dopo aver perso la fede, sono la zia bibliofila e l’assidua lettura della Divina Commedia. Anche Dante ha avuto bisogno di costruirsi un mondo parallelo per riunirsi con l’amata Beatrice: riuscirà Adam a raggiungere il paradiso con Basia, foss’anche solo in sogno?
Sullo sfondo del 2010 polacco denso di sciagure (inondazioni, l’esplosione dell’aereo presidenziale), le riflessioni private sollevate dalla storia di Adam si aprono a una dimensione collettiva che vede la morte come protagonista assoluta, sia in senso fisico sia spirituale. Il film porta avanti quest’indagine tramite immagini sature di simbolismi, sicuramente poco accessibili, e con una messa in scena di una freddezza tale da restituire l’atmosfera della morte dilagante.
I campi lunghi e l’assenza quasi totale di primi piani mirano a impedire un qualsiasi coinvolgimento viscerale-emotivo da parte dello spettatore; è di certo un film molto mentale, con certi momenti (il bellissimo finale) comunque intensi, ma che nell’insieme fatica a mantenere viva l’attenzione e la curiosità, costringendo spesso il pubblico, specie nella seconda parte, a compiere uno sforzo notevole per concentrarsi su quanto viene raccontato sullo schermo; a ciò contribuisce anche la bassa qualità delle immagini, probabilmente voluta, e l’eccessiva pedanteria dei riferimenti ad altre opere o di quei pochissimi dialoghi che si innestano sul silenzio che domina la pellicola.
Un esperimento interessantissimo, quindi, che tuttavia riesce a convogliare l’attenzione sulle proprie riflessioni solo in momenti alterni, ma che sa anche riscattarsi con un finale che sa di meraviglia.
La frase:
"Ognuno prega solo se stesso, la propria idea di speranza che, per comodità, chiama Dio".
a cura di Luca Renucci
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