Oldboy
Joe Doucett (Josh Brolin), dirigente pubblicitario in declino e padre assente, viene improvvisamente rapito senza un’apparente motivazione. Al rapimento segue il sequestro nella stanza di un motel: per venti lunghissimi anni Joe vive da recluso in una prigione privata, senza sapere il perché, né quanto durerà la prigionia, né chi è il suo carceriere. Solo e malnutrito, va incontro a un crollo fisico e mentale che lo porta ad oscillare tra depressione e schizofrenia. L’unica compagna di stanza è una televisione dalla quale un giorno apprende che sua moglie è stata brutalmente assassinata; sua figlia, ormai orfana, è stata adottata da una giovane coppia. Lui è il principale indiziato per l’omicidio della moglie. A partire da quel momento, Joe inizia un percorso di redenzione che, nel chiuso della sua stanza, lo conduce a riprendere in mano il proprio destino: smette di bere e si sottopone a faticosi esercizi fisici che lo riportano in forma. Inizia a scrivere lunghe lettere alla figlia, come in un dialogo interiore, certo di riuscire a fuggire e di incontrarla. Di fatto, altrettanto inspiegabilmente di come è stato rapito, il protagonista viene liberato. Da allora, ha un unico obiettivo: trovare il suo carceriere e ucciderlo.
È questa la trama dell’ultimo, attesissimo film di Spike Lee, Old Boy. La storia si ispira al manga giapponese scritto da Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi e, soprattutto, alla prima versione cinematografica della graphic novel proposta dal regista coreano Park Chan Wook, del 2003.
È con lo sguardo rivolto a questi modelli che Spike Lee affronta alcuni dei temi fondamentali della narrazione: il vizio, la passione, l’istinto alla violenza, il bisogno di amore, il rapporto tra redenzione e vendetta.
Il regista americano si è documentato su molti casi di persone che hanno vissuto lunghi periodi di isolamento, come gli ostaggi di terroristi, per esempio. La sua attenzione verso queste esperienze lo ha aiutato a tratteggiare il complesso carattere del protagonista: selvaggio e violento, da un lato, cinto dei panni di un angelo della morte, vendicativo e spietato; cedevole, dall’altro, debole di fronte all’affetto che prova nei confronti di una figlia quasi sconosciuta e di Marie Sebastian (Elizabeth Olsen), una donna di cui si innamora una volta tornato in libertà. Tra questi due elementi, risulta certamente riuscita la descrizione del lato animale del protagonista: la sua crudezza espressa in scene terrificanti di morte e di tortura, di fronte alle quali si contorcono persino gli stomaci più solidi.
Meno riuscito, invece, è il tentativo di intrecciare in modo armonioso e naturale il lato viscerale con il lato umano del protagonista. La narrazione, così vivida e calda nell’affrontare i temi della vendetta e del rancore, si intiepidisce nel raccontare le vicende di sensibilità umana dei personaggi, i loro cambiamenti e desideri interiori, l’evoluzione dei loro legami affettivi, il loro bisogno di superare la solitudine. Proprio in ciò è evidente la distanza rispetto al film di Chan Wook Park: distanza che segna la differenza tra un capolavoro (quello del regista sudcoreano) e un film di medio livello. Spike Lee non riesce ad apportare nulla di nuovo e di originale rispetto al modello da cui trae ispirazione. Proprio nella scarsa capacità innovativa sta il fallimento del suo progetto.
Il film di Spike Lee, insomma, non regge il confronto con la perla cinematografica del regista sud coreano. Nonostante questo, la visione di Old boy non deve certo essere sconsigliata: non solo per le sensazioni forti che è capace di trasmettere, ma per le riflessioni che suscita e per il buon crescendo di tensione che porta a un finale sconsolato e disarmante. Per quanto non sia un capolavoro di originalità, il film sembra ugualmente in grado di stupire e di sconvolgere.
La frase:
"Se vuoi rivedere tua figlia viva rispondi a due domande: perché ti ho tenuto prigioniero per vent’anni? E due: perché ti ho lasciato andare?".
a cura di Simone Arseni
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