Nowhere Man
Arriva per ogni persona un momento nella vita in cui ci si guarda al passato, e facendo un bilancio dei sogni e delle cose realmente conquistate, inevitabilmente ci si chiede: è tutto qui? Ed allora l’inesorabile dubbio è che si sia compiuta qualche scelta sbagliata e l’unico desiderio rimane quello di reinventarsi.
È questo il succo del film "Nowhere man" di Patrice Toys, presentato al Festival di Venezia 2008.
Tomas è un uomo apparentemente felice, con una bella moglie, Sara, che lo ama, una carriera apprezzabile, una bella casa, ma pare insoddisfatto di ciò che ha. Cova da tempo il desiderio di fuggire lontano, ed un giorno lo fa: inscena la sua morte e parte lontano, in un isola tropicale alla ricerca di se stesso.
Profondamente introspettivo il film è studiato in modo che lo spettatore ne venga in qualche modo coinvolto, insinuando in lui i dubbi del protagonista. Tomas è un uomo che secondo tutti i canoni conosciuti dovrebbe essere felice, ma ha un profondo senso di disagio, che non riesce a spiegarsi, è come se una volta arrivato all’apice del desiderio di vita che è comune a tutti, senta di non avere altre alternative, altri stimoli, e crede che cercando altrove riesca a trovare qualcosa che definisca il suo modo d’essere e lo renda felice. La partenza lo distacca dal resto della sua vita, e inscenare la sua stessa morte è il modo più ovvio per attuarla, ma ciò che trova nell’isola felice che si era immaginato, non è ciò che cerca. Il suo desiderio diventa una chimera, e ciò che ha abbandonato diventa l’unica risposta ai suoi dubbi. Ma come accade quando si compiono delle scelte, non sempre si può tornare indietro, e ciò che si è lasciato è perso, e recuperarlo non sarà possibile. Non dimentichiamo che la moglie lo crede morto, e che dopo cinque anni, potrebbe essersi rifatta una vita.
Supportato da una regia e una fotografia che si sviluppa con l’emotività della storia, il film appare suddiviso in tre parti, determinate sia dallo svolgersi della sceneggiatura che dalle scelte stilistiche. Nella prima parte il disagio del protagonista è evidenziato da una visione fredda della sua vita, una bella moglie, una bella casa, una bella vita, tutto rappresentato con dei toni cupi, spenti, poco attraenti. Quando Tomas arriva nell’isola dei suoi sogni, la vede come un paradiso, e da qui il sole, la sabbia, le palme, il mare. Ma appare subito evidente, che l’isola si comporta da sogno e come tale resta sogno. Nonostante tutto paia più luminoso, infatti, manca anche quell’immagine da cartolina tipica di quei posti, e l’occhio dello spettatore si rende subito conto che quella meta tanto ambita non ha nemmeno lontanamente il sapore di ciò che ci si aspettava, e risulta deludente e per questo dolorosa. Nel rientro a casa, in quella che si può definire la terza parte della storia, i colori assumono un tono più naturale, più vivo, a volte anche più crudo, quasi a rappresentare l’incertezza della realtà, e la esatta conseguenza delle scelte fatte.
Indubbiamente la regista ha saputo sapientemente orchestrare regia, fotografia, scenografia per dare il giusto coinvolgimento alla sceneggiatura, anche quando mescola la parte onirica con quella reale, lo fa in modo tale da rendere ancora più assurda la ricerca del protagonista, ma in qualche modo così vicina all’occhio di chi guarda, e quindi così concreta, mostrando il paradosso della continua ricerca di se stessi, anche quando tutto ci soddisfa, e la duplice verità che tale ricerca possa essere lo stimolo per migliorarci, ma anche per distruggerci, soprattutto quando diventa un’ossessione.

La frase: "Tutti vogliono diventare un altro ma nessuno lo fa. E sai perché? Perché tutti crescono".

Monica Cabras

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