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Mulholland Drive
Più Lynchiano di così, "Mullholland drive" proprio non poteva essere. In bilico costante tra realtà e sogno, la storia del regista del cult televisivo "Twin Peaks" e di pellicole in costante contraddizione tra loro ("The elephant man", "Velluto blu", "Una storia vera"), racconta un sogno hollywoodiano che si trasforma in un incubo. Diviso in una prima parte in cui si sviluppa una lineare storia dalle atmosfere tipiche dei racconti noir degli anni '40, e in una seconda in cui tutte le carte si mescolano improvvisamente con un "risveglio" che lascia vagare i protagonisti tra i più disparati simboli onirici, il film di Lynch è una maglia intricatissima, un percorso tortuoso in cui si è incapaci di trovarne l'inizio e la fine, in un passaggio continuo di universi reali e immaginari.
Una forma cinematografica, quella Lynchiana troppo complessa per essere rinchiusa nel ristretto universo dell' "interpretazione" intesa come spiegazione: i suoi personaggi sempre doppi ed estremi, la sua fotografia magnificamente notturna e i simboli indimenticabili e allo stesso tempo difficili da penetrare, continuano indefinitamente a viaggiare nell'immaginario di chiunque se ne sia lasciato attraversare. Una narrazione liberata dalla logica e dalla consequenzialità, che in questo caso raggiunge la sua punta massima perché accomuna una misurabile perfezione all'eccezionale piacere estetico che produce. Difficile da raccontare perché fa appello ad una memoria, all'inconscio di ognuno di noi, e quindi sempre diverso e sfaccettato. Dal sogno nella luce brillante ed inconfondibile di Los Angeles, si precipita di colpo in una notte irreale e a tratti oppressiva dove i luoghi sono gli stessi seppur sembri diversa la loro consistenza, e le atmosfere conservino la pastosità degli incubi.
Gli americani si sono innamorati di questa pellicola, in cui non manca la satira feroce allo studio system, e Lynch ha assaporato la sua vendetta. Doveva essere infatti il pilota di una serie televisiva per la potente rete ABC, ma il film non piace: è troppo tortuoso, sgradevole e provocatorio e, nonostante i successivi tagli del regista, viene archiviato. Fino a quando il lungimirante francese Alan Sarde e il suo StudioCanal, con cui Lynch aveva già lavorato per "Una storia vera", propone al regista di trasformare il pilota in un vero e proprio film. Ed è un successo. Vincitore a Cannes per la regia, ex-aequo con i fratelli Cohen, è coperto anche dagli allori della associazione dei critici di New York, da quattro nomination ai Golden Globe e oggi anche la nomination agli Oscar come Miglior Regia. Un film nato da un sogno, come ha affermato il regista in un intervista, in cui i personaggi si sono affacciati uno dopo l'altro iniziando a passeggiarvi e a parlare.
Valeria Chiari
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