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Turner











“Il sole è Dio”, sono le ultime parole pronunciate dal pittore inglese William Turner, nato nel 1775 e morto nel 1851. Disteso su un letto della sua casetta di Chelsea, prospiciente le rive del Tamigi, muore tra le braccia di Miss Booth, amata compagna degli ultimi suoi anni di vita. Muore inondato da quella luce che sempre aveva cercato di riprodurre nei suoi dipinti. Una luce bianca e gialla (gli ocra che compra dal rivenditore di origine italiana) che attraversa tutto il film, appena stemperata da tenui verdi o dagli azzurri di cieli che si stagliano su placide marine.
Sin dalla prima inquadratura si intuisce la scelta stilistica che il regista Leigh impone al suo direttore della fotografia (Dick Pope con cui già aveva lavorato in “Il segreto di Vera Drake”). Riprodurre l’improducibile, le atmosfere rarefatte delle opere di un artista con uno spiccato senso per il colore, come pochi nella storia della pittura. Questo dunque lo sforzo stilistico di Mike Leigh, intento in gran parte decisamente riuscito.
Ma il film non è solo un esercizio cromatico nel quale risaltano le accuratissime scenografie o i ricercati costumi dell’epoca. Leigh scrive una sceneggiatura nella quale ci descrive un personaggio complesso e, per certi versi, controverso. William Turner, figlio organico dei suoi tempi, che si stupisce fino ad invidiarne le caratteristiche delle moderne “camere”, capaci di prodigi come i dagherrotipi; incline alla tradizione di una campagna inglese ma sedotto dalla modernità di una macchina a vapore; arrogante ed autocelebrativo ma pronto a spendersi per un collega artista in difficoltà; anaffettivo con la sua famiglia (moglie e due figlie abbandonate) e poi capace di lirici slanci poetici con un’anziana vedova di paese: questo è il William Turner raccontatoci da Mike Leigh, protagonista che non sarebbe stato lo stesso senza il grugno di Timothy Spall, senza i suoi grufolii ed il suo incedere maldestro, senza il suo sorriso che si stempera nell’apparente inespressività di uno sguardo porcino. Un uomo moderno – viaggiatore e curioso turista – generoso nel rinunciare a molti denari pur di lasciare allo Stato britannico tutte le sue opere nella speranza che venissero riunite in un unico Museo (desiderio rimasto tale) ed esposte “Gratis” per tutti, che intuisce le peculiarità dirompenti del nuovo mondo che stava subentrando alla vecchia società rurale. E su questa falsariga, Leigh ne approfitta – non senza una certa lungaggine che appesantisce un film già di non breve durata - per lanciare una stilettata al mondo della critica spesso – a suo giudizio – vuoto esercizio ed esibizione di cultura fine a se stessa. Il tutto durante l’immancabile te, in un elegante salotto di una nobile e ricca famiglia inglese.

La frase:
"C’è qualche differenza tra quando disegnate un’alba e quando dipingete un tramonto?".

a cura di Daniele Sesti

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