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Mektoub My Love - Canto UnoLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Pozzo22 maggio 2018Voto: 7.0
Nessuno riesce a catturare la vita come Abdellatif Kechiche. Uno che, parafrasando Sorrentino, della vita sembra conoscere il copione, i sussulti, i non detti, e l’abilità con cui riesce a carpirli e a riconsegnarli su quella magica tela che è lo schermo, va detto, è un qualcosa di più unico che raro, di genuinamente sorprendente.
Perché vedere i film di Kechiche è un po’ come intrufolarsi nei segreti e nelle conversazioni degli altri, di quelli che definiremmo freddamente estranei, di tutte quelle anime che non abbiamo conosciuto o che aspettiamo silenziosamente da una vita intera, spiandoli nelle effusioni amorose o imbucandosi ad una festa in discoteca, osservandoli da una finestra lasciata aperta sulla strada o sedendosi sulla sabbia ad origliare i loro trascorsi e le loro esperienze, le passioni e gli slanci, le debolezze e le idiosincrasie, in un processo stupefacente che annulla i confini del Cinema per farli confluire nella realtà e nel buio della sala scavando nelle ferite e nella multiformità delle esperienze, gioiose o dolorose che siano, nella vita che passa tramite lo scorrere delle estati e tramite le sensazioni che ci accomunano in un ciclo sensoriale che volteggia soavemente fra amicizia ed abbandono passando per la ricerca del lavoro e della propria strada fino al sentimento amoroso e ovviamente alla passione e al sesso, ai corpi e alla carne, agli aromi e ai tormenti della giovinezza, riconducendoci infine all’origine di ogni cosa e dunque al momento della creazione, della nascita, identificabile nella meravigliosa e rifulgente sequenza del parto degli agnelli che già si configura come uno dei momenti di cinema più alti dell’anno e non solo, attimo di silente ed incontaminato splendore che cattura l’essenza delle cose e ci riporta alle eloquenti didascalie iniziali del Corano, alla luce che è Dio e alla purezza che risiede in tutte le creature viventi, anche in quelle sulle quali non poseremmo subito lo sguardo. Si librano leggiadri come aquiloni nel cielo, questi ragazzi dell’estate del ‘94 lontani dalle sofferenze e dall’ombra della guerra sempre nominata ma mai esperita, e pur fallendo nella titanica impresa di catturare pienamente l’equilibrio perfetto di quel miracolo di poesia e verità che era La Vie d’Adèle girando a tratti un po’ a vuoto o troppo a lungo perfino per i suoi fluviali standard, Kechiche si conferma oggi ancor prima che grande regista un navigato ed ineguagliato osservatore dei moti dell’animo, dei nostri istinti più profondi, delle umane debolezze e di quelle parti di noi che credevamo sopite o addirittura perdute nei vortici del tempo, e anche se il montaggio o la mancanza di esso questa volta non sembra giovargli eccessivamente, pur parte integrante ed inscindibile di un linguaggio e di una poetica che perderebbero altrimenti la ragione della loro miracolosa efficacia, rimangono in tutta la loro forza la meraviglia e lo splendore di autentici squarci di cinema e di frammenti di vita di enorme bellezza capaci di scuoterci dal torpore e di riportarci alla mente attimi baluginanti del nostro vissuto dissotterrandoli dal porto sepolto delle nostre esperienze e dei nostri desideri più reconditi e all’apparenza rimossi, toccandoci nel profondo e facendoci riassaporare le gioie e i dolori, i dubbi e le angosce, i brividi e la dolcezza dei primi baci e delle prime esperienze. Facendoci sentire, questa volta è il caso di dirlo, come se fossimo di nuovo lì, in carne ed ossa ed in balia delle nostre passioni, grazie ad un cinema capace di catturare e trasfigurare la natura magmatica della realtà fondendola nell’esperienza filmica e annullando qualsiasi tipo di parete o di distanza, qualcosa di così unico e potente da farci rivivere con straziante dolcezza e concretezza inaudita i momenti in cui siamo stati con una persona facendoci l’amore o con cui abbiamo semplicemente condiviso i piaceri del sesso riportandoci nel dettaglio a quegli attimi, a quei sapori, a quegli odori e a quelle sensazioni che hanno invaso il nostro corpo quando eravamo persone diverse da quelle che siamo oggi ma che ricordiamo ora in tutta la loro preziosa essenza ed unicità, nella costante consapevolezza che attraversare la vita è come camminare sospesi su un filo che non sapremo mai dove ci condurrà ma che dobbiamo percorrere e assaporare in tutta la sua pienezza ogni giorno e in ogni momento alla ricerca di qualcosa di nuovo, di autentico e rigenerante, anche nella noia e in quei momenti di stasi apparente che l’occhio di Kechiche cattura così abilmente trasformandoli in poesia, perché come dicevano i grandi saggi Renoir e Bertolucci parlando di cinema ma anche della vita, dovremmo sempre lasciare una porta aperta sull’imprevisto, sulla realtà, sul piacere dell’inatteso e dell’inaspettato, nella pacata speranza e nella docile attesa di qualcosa che potrebbe nascere nei luoghi più inaspettati o con qualcuno a cui mai avremmo pensato, ancora lì, su quelle spiagge e sotto quei tramonti, con qualcuno che ci osserva alle spalle sorridendo e parteggiando per noi, come facciamo noi durante i film di Kechiche. Perché Dio è nella luce, Dio è nella vita, Dio è in ogni cosa. La frase dal film:
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