Le rose del deserto
Novantuno anni, sessantacinque regie, ottantacinque sceneggiature, tante apparizioni da attore (l'ultima nell'americana Sotto il sole della Toscana), tre nominations all'Oscar (mai vinto però). Mario Monicelli rappresenta con Ettore Scola, Luigi Comencini e Dino Risi quel che è rimasto in termini di regia della "commedia all'italiana". Il suo nuovo film "Le rose del deserto", nasce dal desiderio di raccontare uno di quei rami dell'albero del secondo conflitto mondiale, guerra a suo dire non abbastanza trattata dalla filmografia italiana.

Nell'estate del 1940, nel deserto libico il Terzo Reparto della Trentunesima Sezione Sanità si accampa con l'idea che il soggiorno sarà breve. Chi non credeva alla guerra lampo? Il clima è vacanziero, e i soldati stringono ben presto amicizia con alcune persone del luogo. Ma gli spari, e le tragedie sono dietro l'angolo...

Una lunga tribolazione in fase pre-produttiva per trovare fondi e che, non essendosi risolta fino in fondo, pesa molto sulla riuscita del progetto. Prima di qualsiasi appunto sulla sceneggiatura infatti, spiace dover vedere un film di un Maestro come Monicelli fatto con situazioni scenografiche cosi approssimative ed effetti scenici semplicistici, che pesano come un macigno sull'esito quantomeno visivo dell'opera. E così questa sorta di "Mediterraneo" in terra africana che per tono ricorda certi versi il capolavoro di "La grande guerra", paga prima di tutto il pegno di risultare inverosimile già dalle immagini. Ma anche la sceneggiatura, liberamente tratta da "Il deserto della Libia" di Mario Tobino e da "Guerra di Albania" di Giancarlo Fusco, appare piuttosto pasticciata e incapace di inquadrare all'interno del contesto, un proprio punto di vista preciso che motivi la scelta di raccontare il tutto. C'è qualche tentativo di parlare del presente ragionando sul passato, dei rapporti tra italiani e islamici e di come la nostra identità non sarà mai portata alla guerra, ma sempre al disimpegno, alla poesia, a convivenze pacate e il più ludico possibile. Peccato che si tratti di pensieri spesso abbandonati a se stessi, buttati alla rinfusa senza troppa convinzione. E così anche il finale, non sembra chiudere alcun discorso visto che non se ne era aperto nessuno. Rimangono alcuni siparietti comici e momenti d'intensità drammatica particolarmente riusciti come il matrimonio per procura o l'attraversamento di un campo che si credeva minato. Dimostrazione che all'occorrenza la mano di Monicelli continui ad essere ispirata, peccato che, come il titolo suggerisce, siano rose in un deserto.

La frase: "Vedo le mura, gli archi, ma la gloria non la vedo".

Andrea D'Addio

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