L'arbitro
Il titolo richiama inevitabilmente alla memoria quello della commedia interpretata da Lando Buzzanca, nel lontano 1974, sotto la regia di Luigi Filippo D’Amico, ma, girato in bianco e nero, il lungometraggio d’esordio del sardo Paolo Zucca, in realtà, prende le mosse da uno short che, firmato dallo stesso nel 2009, vinse sia il David di Donatello che il Premio Speciale della Giuria a Clermont-Ferrand, il più importante festival europeo del cortometraggio.
Aperto dalla frase del filosofo e drammaturgo francese Albert Camus "Tutto quello che so della vita l’ho imparato dal calcio" e co-sceneggiato dal regista insieme alla scrittrice e giornalista Barbara Alberti, si snoda su diversi personaggi; a partire, appunto, da un ambizioso arbitro ai massimi livelli internazionali interpretato da Stefano Accorsi, il quale, però, si lascia coinvolgere in una vicenda di corruzione e, colto in flagrante, viene esiliato per punizione negli inferi della terza categoria sarda.
Categoria la cui squadra più scarsa sembra essere l’Atletico Pabarile, umiliata come ogni anno dal Montecrastu, guidata da un arrogante fazendero con le fattezze di Alessio Di Clemente, ma che sembra cominciare a vincere una partita dopo l’altra grazie alle prodezze di un giovane emigrato e novello fuoriclasse incarnato da Jacopo Cullin, tornato in paese e destinato anche a conquistare la figlia di un allenatore cieco con il volto del comico Benito Urgu.
Perché, con Geppi Cucciari nei panni della donna, risulta subito chiaro che l’intento dell’ora e mezza di visione – che non manca neppure di tirare in ballo due cugini calciatori del Montecrastu coinvolti in una faida legata ai codici arcaici della pastorizia – sia permettere di coesistere al registro epico e a quello grottesco, man mano che troviamo in scena anche Marco Messeri e Francesco Pannofino.
Accanto al già citato Accorsi, due dei pochi nomi cinematografici inclusi all’interno di un elaborato che, come risulta evidente, sfrutta in maniera principale facce popolari del piccolo schermo, tra dialetto dominante ed immancabili occasioni per spingere lo spettatore a (sor)ridere.
Un elaborato che, a tratti, arriva addirittura a godere di un respiro internazionale che gli permette quasi di avvicinarsi ad analoghe produzioni di genere spagnole... anche se, in fin dei conti, rimane una guardabile operina impreziosita da una buona direzione degli attori e da una regia nel complesso non disprezzabile, ma che risente, forse, proprio della sua provenienza dai pochi minuti del cortometraggio.
La frase:
"Cammini come uno che sta per crossare da un momento all’altro".
a cura di Francesco Lomuscio
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