La moglie del sarto
1960. In un posto imprecisato del Meridione, Rosetta Pignataro rimane improvvisamente vedova con la figlia Sofia a carico. Decisi ad approfittare della supposta debolezza di una donna sola, l’assessore Cordaro e un imprenditore piemontese iniziano una serie di pressioni sempre più pesanti su Rosetta per accaparrarsi la sua sartoria e trasformarla in un albergo per turisti. All’interno di queste dinamiche verrà a trovarsi anche il giovane Salvatore, nomade puparo che si innamora di Sofia.
Quattro settimane di riprese e due anni e mezzo di produzione hanno partorito questo disastro. Massimo Scaglione ha definito il film come una sorta di "ricordo di mia madre", perché da quando si trasferì a Roma all’età di 19 anni ha capito la sua fatica e realizzato che, testualmente, "tutte le donne sono degli eroi". Ora, senza addentrarci nel buonismo-qualunquismo della frase né nel fatto che si sia dimenticato della battaglia sulla lingua che da anni il femminismo, che lui pare tanto sostenere, porta avanti (per essere chiari: eroine, non eroi), cerchiamo di capire quale sia nocciolo del film. La forza delle donne, molti suggerivano in conferenza stampa (e Maria Grazia Cucinotta non si è fatta scappare l’occasione di sottolineare più volte quanta campagna contro il femminicidio ha svolto, mentre Scaglione ha dichiarato che di fronte a episodi di violenza si vergogna di appartenere alla "razza maschile"). Se così fosse, quest’ipotesi sarebbe valida solo in parte, finché - non posso spoilerare - la trama propone un colpo di scena così banale, triste e improbabile che dovrebbe far scappare dalla sala quei pochi spettatori che ancora non si erano arresi, fiduciosi in un riscatto improbabile nell’ultima mezzora di pellicola. Un’altra ipotesi avanzata da cast e regista è che il film girasse intorno al tema del pregiudizio, oppure dell’amore, o addirittura "il centro del film è il centro della vita: la procreazione"; insomma: poche idee, ma confuse.
Scritto come si cucina un minestrone, ovvero con "di tutto un po’", il copione ci propone stereotipi visti così tante volte che è stancante persino elencarli: la donna forte del sud, il politico meridionale mafioso, l’imprenditore cattivo del nord, il vecchio saggio, la segretaria scema, e molti altri. Sceneggiatura piatta e prevedibile, la sua unica sorpresa è di un tale cattivo gusto da rendere il film quasi un gioiellino per gli amanti del trash. Il tentativo di far convivere melodrammi e siparietti comici è fallimentare, data la totale incapacità registica di avere controllo sugli attori, alcuni dei quali, soprattutto i giovani Alessio Vallone e Marta Gastini, sarebbero più che bravi se non fossero lasciati a se stessi. E il tutto diretto e orchestrato così male che si sfonda la soglia dell’imbarazzo, ed è sufficiente vedere i primi cinque minuti per crederci e per farsi infastidire dal sapore dilagante di amatoriale.
Insomma, un disastro su tutta linea, e Dio solo sa perché si continuano a produrre pellicole del genere.
La frase:
"L’uomo si è dimenticato dell’uomo".
a cura di Luca Renucci
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