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La grande bellezza

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio20 maggio 2013
 

  • Foto dal film La grande bellezza
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Già a partire dalla caotica sequenza della festa, soltanto pochi minuti dopo l’inizio, risulta chiaro il tentativo di far apparire lo spettacolo che scorre sullo schermo nelle vesti de “La dolce vita” (1960) secondo il napoletano classe 1970 Paolo Sorrentino, autore de “Il divo” (2008) e “This must be the place” (2011).
Del resto, man mano che troviamo in scena, tra gli altri, Carlo Buccirosso e un Carlo Verdone provvisto di occhiali e baffi, con le fattezze di Toni Servillo ne è protagonista il sessantacinquenne Jep Gambardella, scrittore e giornalista che, dolente e disincantato, assiste alla sfilata di un’umanità vacua e distratta, potente e deprimente.
Un’umanità fagocitata in una babilonia disperata e i cui elementi spaziano da una ricca Isabella Ferrari a una Serena Grandi cocainomane, passando per un Lillo Petrolo collezionista d’arte contemporanea; in mezzo a dame dell’alta società, politici, criminali d’alto bordo, attori, nobili decaduti e alti prelati comprendenti il bellocchiano Roberto Herlitzka.
Un’umanità immersa nei palazzi antichi, nelle ville sterminate e sulle terrazze più belle di una Roma estiva, indifferente come una diva morta mentre ospita anche i volti di Massimo Popolizio, Giorgio Pasotti e Iaia Forte.
Senza contare un cameo del veterano Aldo Ralli e una ancora sensuale Sabrina Ferilli che, concedendosi addirittura uno striptease in silhouette, contribuisce a testimoniare la immancabile ossessione per l’estetica tipica di colui che esordì tramite “L’uomo in più” (2001). Ossessione che, forte della fotografia a cura dell’infallibile Luca Bigazzi, provvede senza dubbio a rendere omaggio alla città eterna, fornita quasi di erotismo all’interno delle molte inquadrature che la ritraggono, ma, allo stesso tempo, non riesce nell’impresa di coprire la pochezza e l’inconsistenza dello script, a firma del regista insieme a Umberto Contarello.
Perché siamo d’accordo che il brevissimo incontro con Fanny Ardant non manchi affatto di poesia e che la sequenza in cui Galatea Ranzi viene grottescamente sputtanata durante una conversazione di gruppo non possa fare a meno di essere annoverata tra le migliori dell’insieme, ma è anche vero che non sempre le divertenti battute appaiono degne dell’ambiziosa operazione (il paragone tra il brodino e la scopata sembra quasi uscito dal peggior cinema trash) e che, in fin dei conti, nessuno dei tanti argomenti toccati ottiene un adeguato approfondimento.
Tanto che, appreso, tra l’altro, che il funerale è l’appuntamento mondano per eccellenza e che le radici sono importanti, una volta giunti ai titoli di coda l’impressione è soltanto quella di avere appena sfogliato – con estrema lentezza – un interminabile atlante (siamo oltre le due ore e venti) riguardante le antichità della capitale italiana e caratterizzato da affascinanti fotografie con incollate sopra le immagini di non poche star cinematografiche nostrane.


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