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La Befana vien di notte

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio19 dicembre 2018Voto: 6.0
 

  • Foto dal film La Befana vien di notte
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Prima di passare a venticinque anni più tardi, si comincia immediatamente con l’anziana dalle scarpe tutte rotte del titolo impegnata a svolazzare da una casa all’altra. Anziana che apprendiamo essere nata nel 1481 a Palestrina, in provincia di Roma, e che, di giorno giovane e bella maestra di scuola elementare dalle fattezze di Paola Cortellesi, ribadisce che non invecchiare porta sì tanti vantaggi, ma anche molte privazioni, tra cui l’amore. Perché non può certo rivelare la propria identità segreta al Giacomo alias Fausto Maria Sciarappa che desidererebbe sposarla e che viene scoperta, invece, da sei suoi alunni dal momento in cui finisce rapita dal misterioso produttore di giocattoli Mr. Johnny incarnato da Stefano Fresi, il quale sembrerebbe avere con lei un vecchio conto in sospeso.

Sei alunni che, appunto, decidono di immergersi in un’avventura destinata a cambiarli per sempre proprio nel tentativo di liberarla, tra situazione che ricorda un po’ il contrasto capitalismo-tradizione alla base de “La vera storia di Babbo Natale” di Jeannot Szwarc e la presenza di un giovanissimo orientale considerato enciclopedia vivente, il quale non può fare a meno di essere interpretato in qualità di omaggio al Data de “I Goonies”.
Del resto, al di là dei chiari rimandi all’universo cinematografico del maghetto Harry Potter – con tanto di civetta bianca – e delle musiche di taglio elfmaniano di Andrea Farri, che rafforzano ulteriormente l’influenza da parte di Tim Burton (più quello de “La fabbrica di cioccolato” che di “Edward mani di forbice”, però), sono i teen movie a stelle e strisce sfornati negli anni Ottanta ad essere presi come modello di riferimento dallo sceneggiatore Nicola Guaglianone, al quale si devono, tra l’altro, gli script del superhero movie “Lo chiamavano Jeeg robot” e della commedia “Benedetta follia”.
Modelli di riferimento tra i quali rientra, senza alcun dubbio, anche “E.T. – L’extraterrestre” di Steven Spielberg, considerando che è a bordo di biciclette che i piccoli protagonisti si spostano per concretizzare questo allegorico percorso di crescita mirato a sposare in una veste moderna gli elementi del folclore.

Un percorso di crescita che non solo segna il ritorno dietro la macchina presa da grande schermo per Michele Soavi, dedicatosi esclusivamente a fiction televisive dopo aver firmato nel 2008 la trasposizione pansiana “Il sangue dei vinti”, ma lo riporta ad occuparsi di un prodotto pienamente di genere, sfiorato l’ultima volta soltanto grazie allo splendido “Arrivederci amore, ciao” e cavalcato soprattutto con i suoi primissimi film, da “Deliria” a “Dellamorte Dellamore”. Un Michele Soavi che, forte oltretutto del lodevole lavoro svolto dal direttore della fotografia Nicola Pecorini e dallo scenografo Massimo Santomarco, confeziona, quindi, una favola di taglio internazionale sfoggiando la consueta competenza tecnico-artistica di apprezzabilissimo narratore in fotogrammi.

Una favola sicuramente adatta a tutta la famiglia e capace di testimoniare che anche in Italia è ancora possibile addentrarsi dalle parti del fantasy, ma la cui scrittura lascia in parte a desiderare e che, tra libellule-droni e lupi tirati in ballo in mezzo ai pericoli da affrontare, non può certo evitare di lasciar trasparire una certa pochezza di mezzi e idee nel confronto con analoghi ma più costosi esempi d’oltreoceano.


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