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I miei giorni più belliLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Rosanna Donato23 giugno 2016Voto: 8.0
La pellicola del regista francese Arnaud Desplechin, che ha ottenuto un importante successo di pubblico e critica al Festival di Cannes 2015, racconta la storia di Paul Dédalus. Quest’ultimo torna a Parigi dopo aver vissuto alcuni anni in Tadjikistan, ma un problema con i documenti scatena in lui un vortice di ricordi legati al suo passato. Paul, ancora adolescente, durante una gita scolastica nell’ex URSS, aveva regalato il suo passaporto a un ragazzo per far sì che potesse raggiungere Israele. Questo è il pretesto usato dal regista per parlare del tormento interiore di un uomo, che vuole fuggire da una realtà controversa che non gli appartiene: dalla madre che soffre di depressione alla sua città natale Roubaix, dal suo Paese alla sua lingua. Paul Dédalus apprende lingue diverse con molta facilità, ma soprattutto scrive e parla costantemente. Paul usa la lingua come strumento per mettere ordine nella propria vita e cercare di trattenere i ricordi. Esther invece è la ragazza di cui è innamorato e, diversamente da quanto accadeva nel film “Comment je me suis disputé…”, è lei questa volta a riconoscere Paul, il quale vorrebbe rinnegare la sua identità.
Vincitore del Premio César 2016 per la migliore regia, il film vede come protagonista l’attore francese Mathieu Amalri, che con la sua spiccata intensità riesce a trasportare il pubblico nella suavita, facendolo avvicinare ai suoi stati d’animo, le sue inquietudini, la sua nostalgia per un tempo passato e ormai irraggiungibile. Lo spettatore, immergendosi nella sua esistenza, prova una forte empatia verso un personaggio così pragmatico e ricco di sfumature. Il regista, il cui intento è quello di indagare la complessità dell’animo umano e delle emozioni suscitate dai ricordi, è riuscito a dare grande prova delle sue capacità. Passando dalla realtà al passato con maestria e tecnica, Desplechin ha regalato al cinema francese uno scenario che ritroviamo spesso nella vita di tutti i giorni: dalla malattia della madre (quante persone devono convivere con una persona gravemente malata?) all’amore lontano, perduto; dal bisogno di amore alla consapevolezza che il passato rimarrà tale; dalla voglia di rivivere emozioni intense al bisogno di sperare in cambiamento; dalla perdita dell’identità fino a raggiungere la salvezza scrivendo lettere alla donna di cui è sempre stato innamorato, il che lo aiuta a sentirsi più vicino a lei. La storia infatti ruota intorno a una lunga e interminabile lettera che egli scrive a Esther, come a volere creare un legame con lei attraverso le sue memoria da 50enne. La sceneggiatura non lascia nulla al caso e il susseguirsi di scene si segue con facilità, anche se inizialmente lo spettatore può incontrare qualche difficoltà dovuta al passaggio dalla realtà agli anni dell’adolescenza, soprattutto se non si conosce la trama. C’è da dire però che questo passaggio è netto, anche se veloce, e chiaro. L’importante è porre particolare attenzione durante la visione, per non perdersi particolari importanti. Al centro di tutto c’è un grande amore, uno di quelli che è difficile ritrovare nella vita, uno di quegli amori che i più definirebbero “eterno” e che resterà indelebile su quel pezzo di carta, sopra il quale il protagonista esprime la forza di un sentimento inattaccabile. Ma la pellicola non è solo questo, ma anche avventura, nemici, baci, gesti eroici, promesse e limiti che non si dovrebbero oltrepassare. Una storia ricca di temi importanti, ma mai banale e noiosa e, soprattutto, adatto a un pubblico (adulto) che abbia voglia di emozionarsi in maniera intensa. La frase dal film:
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