Il Ragazzo Invisibile
Chi, durante il periodo dell’adolescenza, non ha mai desiderato, almeno una volta, di essere invisibile?
È sicuramente partito da questo interrogativo il vincitore del premio Oscar Gabriele Salvatores per concepire – su uno script a firma di Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo – la sua risposta ai cinecomic a stelle e strisce d’inizio terzo millennio.
Risposta che, con “Clint Eastwood” dei Gorillaz ad accompagnare i titoli di testa, pone l’esordiente Ludovico Girardello nel ruolo di Michele, il quale, tutt’altro che popolare a scuola, poco amante dello studio e incapace di eccellere negli sport, è interessato soltanto ad avere l’attenzione della coetanea Stella alias Noa Zatta; fino al giorno in cui, appunto, scopre di essere in grado di far scomparire del tutto il proprio corpo.
Ed è da qui che, tra escursioni negli spogliatoi femminili e passeggiate completamente nudo, comincia per il protagonista, un po’ come lo Spider-man dell’omonimo lungometraggio diretto da Sam Raimi, il difficile percorso per poter apprendere la maniera di controllare la particolare facoltà di cui è venuto a conoscenza.
Ma, mentre Valeria Golino veste i panni della madre poliziotta e Fabrizio Bentivoglio quelli di uno psicologo della Polizia di Stato, da un lato l’emersione di aspetti legati alla passata genesi del potere in questione non può fare a meno di richiamare alla memoria la saga “X-Men”, dall’altro il costume indossato dal ragazzo non fatica ad assumere i connotati di un mix tra Daredevil e Diabolik.
Del resto, sorvolando sul famosissimo ladro creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, non dobbiamo dimenticare che l’Italia, all’interno della corrente dei b-movie che furono, vanta una personale tradizione di supereroi su celluloide evidentemente influenzati dall’universo dei fumetti; da “Superargo contro Diabolikus” (1966) di Nick Nostro a “Flashman” (1967) di J. Lee Donan (pseudonimo di Mino Loy), passando per la serie dei fantastici tre Supermen.
Anche se risulta chiaro che l’intenzione dell’autore di “Mediterraneo” (1991) e “Nirvana” (1997) – forte della produzione della Indigo Film che ha sfornato “La grande bellezza” (2013) – fosse quella di puntare molto più in alto, confezionando un elaborato capace di competere con gli innumerevoli esempi analoghi provenienti dagli Stati Uniti.
Un elaborato in cui troviamo coinvolta anche la Ksenia Rappoport de “La doppia ora” (2009) e che, impreziosito dall’ottima fotografia dell’infallibile Italo Petriccione, riesce nell’impresa di manifestare un look internazionale (ma non è una novità nella filmografia salvatoresiana), nonostante gli evidenti accenti tricolori nella parlata di alcuni personaggi.
Ma, sebbene perfino gli effetti digitali facciano la loro buona figura, i circa cento minuti di visione – culminanti in un’ultima sequenza durante i titoli di coda – appaiono in parte penalizzati da qualche ingenuità di sceneggiatura (se Gabriele è invisibile, per quale motivo si prende la briga di indossare il casco nel fuggire in motorino?), in parte e, soprattutto, dall’eccessivamente ristretto contenuto di spettacolarità offerto dopo aver costruito a dovere tanta attesa.
Quindi, pur trattandosi di un’operazione tecnicamente lodevole e decisamente insolita per la Settima arte dello stivale del XXI secolo, rappresenta soltanto un piccolo inizio verso la strada per poter uscire vincenti dal confronto con buona parte dei blockbuster giovanili statunitensi.
La frase:
"Il tuo potere non può sparire e forse ne hai anche degli altri".
a cura di Francesco Lomuscio
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