Il rabdomante
Da diverso tempo si sente parlare di un rivoluzionario sistema di produzione cinematografica denominato "The Coproducers", il quale, nato dalla necessità di trovare una soluzione diversa alle non semplici condizioni del mercato della celluloide, realizza prodotti in co-produzione tra tutti i partecipanti che, in cambio del loro contributo finanziario, lavorativo o artistico, diventano proprietari di una quota di diritti del film.
Un sistema volto principalmente all'eliminazione della figura del produttore, inteso quale proprietario unico dell'opera, e tramite cui è stato realizzato anche "Il rabdomante", secondo lungometraggio a firma del toscano Fabrizio Cattani, autore dell'ancora inedito "Quelle piccole cose" (2002), che si svolge sulla brulla ed arida terra di Matera.
Terra in cui facciamo conoscenza con lo strambo quarantenne Felice (Pascal Zullino), schizofrenico proprietario di una masseria provvisto del dono della rabdomanzia, ovvero la capacità di scovare le vene idriche sotterranee, che si trova improvvisamente a dover aiutare Harja (Andrea Osvart), venticinquenne dell'est in fuga da Cintanidd (Riccardo Zinna), boss indiscusso della mala pugliese nel business dell'acqua.
E, fin dal momento in cui entrano in scena gli scagnozzi di quest'ultimo, ovvero i fratelli Camardo (Francesco Dominedò e Nando Irene), incaricati di rintracciare la ragazza, e Tonino (Antonio Gerardi), esattore la cui missione è quella di identificare chi sta sfidando Cintanidd nell'aprire i pozzi d'acqua, è evidente una certa caricaturalità sfoggiata nel descrivere i personaggi, la quale testimonia il tentativo da parte del lungometraggio di riallacciarsi a quella tipologia di commedia mirata al gioco dei luoghi comuni riguardanti gli abitanti del sud rurale italiano.
Eppure, nonostante l'esilarante linguaggio dialettale ed i diversi momenti comici, il film di Cattani, forte della buona prova degli attori, lascia tranquillamente emergere un certo retrogusto amaro, identificato non solo nei momenti degli scontri a fuoco, ma anche e soprattutto nella triste ed allo stesso tempo tenera storia di emarginazione su cui si costruisce, non priva di una più o meno latente carica politica.
E, al di là di qualche occasionale caduta di ritmo, i risultati vanno decisamente al di sopra della media, per merito sì di una regia e di uno script - concepito dallo stesso regista in collaborazione con Chiara Laudani ed il protagonista Pascal Zullino - curati a dovere, ma anche della bella fotografia dell'esordiente Francesco Carini, la quale va ad illuminare sia i soleggiati esterni che le fatiscenti scenografie di Biagio Fersini ("Volesse il cielo!").

La frase: "Devono capire una volta per tutte chi comanda l'acqua qua".

Francesco Lomuscio

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