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Il fiume ha sempre ragioneLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Luca Biscontini25 luglio 2016Voto: 7.5
Forse non tutti sanno che Silvio Soldini, oltre ad essere l’interessante cineasta di fiction che tutti conosciamo - celebri in tal senso sono alcuni titoli della sua filmografia quali "Pane e tulipani", "Brucio nel vento" e "Giorni e nuvole" - ha alle spalle una solida carriera di documentarista cominciata sin dal lontano 1985 e proseguita senza interruzioni per quasi trent’anni. Reduce dal fantasy "Il comandante e la cicogna" (2012), il regista milanese torna alle origini per cimentarsi con il mondo della tipografia, tentando di dare corpo alla volatilità di un passato magicamente riattualizzato dall’encomiabile lavoro di due personaggi straordinari, Alberto Cariraghy e Josef Weiss, entrambi dediti all’antichissima arte della stampa.
Incuranti del progresso tecnologico da cui sono fatalmente accerchiati, i due artisti-artigiani "resistono", utilizzando dei macchinari meccanici, meravigliosamente ancora funzionanti, con cui imprimono su un’immacolata carta di cotone, che tagliano a mano, alcuni splendidi caratteri che impreziosiscono a dismisura le originalissime pubblicazioni a tiratura limitata di cui sono gli autori. Ma ciò che rende il loro lavoro straordinario è il fatto che il procedimento utilizzato è ancora quello della "composizione" (esattamente come si faceva centinaia di anni fa), per cui ogni singola frase deve essere minuziosamente realizzata attraversa la perfetta giustapposizione delle lettere in piombo, che poi, immesse sul piano di lavorazione della macchina, rigorosamente azionata da un ampio gesto umano, andranno a costituire il contenuto dei bellissimi libri. Alberto, con un temperamento più spiccatamente artistico, ci mostra gli esemplari del suo lavoro, intrattenendoci con alcune interessanti considerazioni sorte da riflessioni filosofiche, dalle buone letture (efficacissimo in tal senso l’aforisma riferito di E. M. Cioran: “La mia forza è il non aver dato risposta a niente”), e ci conduce nel suo atelier, dove, anche grazie all’ausilio di alcuni compagni volontari, continua amabilmente a dedicarsi alla sua instancabile passione. Josef, abitante oltre il confine, in Svizzera, è, invece, più attratto dal fascino materico del suo mestiere, ed è davvero un piacere per gli occhi vederlo mentre si produce in un lavoro di restauro di un’antica edizione dell’Iliade di Omero: ogni passaggio del processo - slegare il filo della vecchia rilegatura, creare un nuovo e più solido supporto su cui fissare le vecchie e affascinanti pagine ingiallite dal tempo e applicare la nuova copertina di un colore sgargiante - rivela un amore indescrivibile per "l’oggetto", laddove, invece, la postmodernità è completamente indirizzata verso una smaterializzazione che riduce al minimo la manualità, finanche rendendo superflua la realizzazione del "prodotto", che sembra inesorabilmente destinato a vivere virtualmente nell’asetticità di un’interfaccia. Il loro, dunque, diventa, come è scritto su un cartello fugacemente inquadrato dalla macchina da presa di Soldini, un atto di resistenza nei confronti della logica della diffusione di massa. Ma è bene sottolineare che i due, pur ostinatamente restii alle nuove tecnologie, riconoscono anche tutti gli effetti positivi (la possibilità, per esempio, di accedere a una serie di contenuti prima interdetti) dell’era digitale, e, quindi, l’indugiare nella loro antichissima pratica è una scelta poetica che segue la deriva tragicomica (il lato ridicolo del progresso) di un mondo sempre più ripiegato su se stesso. Soldini realizza un’agile documentario (72’), in cui riesce pienamente a restituire tutto il fascino della semplicità del gesto e l’amore per una arte che magnificamente sa ancora ritagliarsi uno spazio in cui produrre valori simbolici che vanno a rigenerare l’atrofizzato immaginario contemporaneo, donandogli una preziosa linfa. Un film "inattuale" che consigliamo caldamente. La frase dal film:
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