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Il consiglio d'Egitto
Il consiglio d'Egitto è uno dei libri più belli ed affascinanti di Leonardo Sciascia. Scritto nel 1963 dal grande autore siciliano, narra le vicende parallele di due "rivoluzionari" ante litteram nella Sicilia della fine del XVIIIº secolo. Un parroco, l'Abate Vella, con qualche nozione di lingua araba, che si inventa di sana pianta alcuni documenti risalenti alla dominazione araba in Sicilia, (il Consiglio di Sicilia ed il Consiglio d'Egitto, per l'appunto) dai quali sembra desumersi che molte delle proprietà della nobiltà sono state frutto di usurpazioni ai danni della corona del Re di Napoli. Un colto avvocato che sposa la causa giacobina tentando, senza successo, di sovvertire l'ordine costituito dall'oligarchia nobiliare e dal vicerè compiacente.
Il film di Emidio Greco (aveva già affrontato Sciascia con il film "Una storia semplice" nel 1991) coglie l'importanza e la rilevanza di questi due personaggi e ne narra le vicende risaltandone l'inevitabile ed ineluttabile parabola discendente. Il regista conosce il valore dell'opera che sta trattando e soprattutto la stordente bellezza del testo che ha tra le mani. Non a caso le parti più belle del film sono quelle raccontate dalla voce narrante, fuori campo, di Giancarlo Giannini che arricchisce la pregnanza delle parole con modulazioni timbriche da grandissimo attore e sapiente frequentatore di testi ormai assunti al grado di classici.
Greco è anche molto bravo nell'intuire il sottile gioco dei rapporti tra i personaggi che l'autore abilmente descrive nel libro. In ciò lo aiutano ottimi interpreti come Silvio Orlando e Renato Carpentieri rispettivamente nelle parti dell'Abate Vella e di Monsignor Airoldi, mecenate del piccolo prete. I due attori duettano con leggiadra gravità alternando momenti di ottima recitazione a brevi momenti di significanti pause. Così come lieve ed impalpabile è la prova di Leopoldo Trieste, uno dei decani tra gli attori italiani.
I personaggi così sapientemente delineati nel libro, il regista, con altrettanta abilità simbolica, ripropone in questo film che, a tempo di minuetto, scorre placido come un disseccato fiumiciattolo di campagna. Ed ecco quindi, se l'avvocato Di Blasi, interpretato da un marmoreo Tommaso Ragno ("Chimera") è l'allegoria di quella scuola di pensiero che in Francia si era ormai affermata, l'illuminismo, grazie a maestri come Diderot e Montesqueieu, che il Di Blasi cita esplicitamente nelle sue continue discussioni con la nobiltà locale, Antonio Catania recita con graffiante bravura la parte di Don Saverio Zarbo, nobile proprietario terriero, simbolo della conservazione, Gattopardo per definizione. La bellezza e l'importanza del testo fanno passare in secondo piano anche alcune eccessive lentezze e prolungati indugi nel ritmo narrativo che, con apatia tipicamente meridionale ma con inesorabile ineluttabilità, conduce all'incontro finale nelle regali prigioni tra i due protagonisti.
Da una parte l'abate, eroe quasi per ripicca, perché è bello che al posto di uno ci vada qualcun altro, che ci sia il re o la repubblica poco cambia, l'importante è che si cambi: questa è la sua esile ma non così fragile filosofia.
Dall'altra, l'avvocato, vero rivoluzionario, bello ed impavido, che pagherà con la vita per il suo impegno e la sua voglia di eguaglianza, parola assurda e ridicola, per quella nobiltà che come uno stantio disegno su una arazzo ormai sbiadito dal tempo, gusta sorbetti sulla terrazza di un elegante palazzo patrizio.
Das
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