I corpi estranei
Antonio arriva a Milano dalla Toscana per poter curare il tumore al cervello di suo figlio, il neonato Pietro. Costretto a vivere all’interno della struttura ospedaliera, si trova forzatamente a condividere lo spazio con gli altri genitori e con un gruppo di giovani arabi riuniti intorno ad un amico malato. Tra questi, Jaber cerca un dialogo che Antonio sembra rifiutare.
Il primo film italiano in concorso all’ottava edizione del Festival di Roma è una bellissima sorpresa. Mirko Locatelli dimostra di possedere una sensibilità fuori dal comune, riuscendo a mantenere vivo l’interesse del pubblico per un’opera priva di scene madri. Non esistono momenti principali nella narrazione, ogni inquadratura, anche quella all’apparenza più inutile (Antonio che cammina per il corridoio, che fuma una sigaretta) è funzionale alla penetrazione di una disperazione che conduce a una chiusura totale nei confronti dei rapporti con l’altro. Procedendo per piani sequenza, il film cerca di affidarsi a un realismo totale senza però evitare l’estetica e la suggestività. La camera a spalla e le semi-soggettive rafforzano l’identificazione con Antonio; le splendide musiche dei Baustelle, usate di rado e con abilità, creano atmosfere che sottolineano il connubio di amore e malinconia che vive il protagonista. Filippo Timi è bravissimo nel farci quasi dimenticare di essere di fronte a un attore e non a un personaggio reale. L’aderenza alla realtà è spinta così lontano da non tirarsi indietro nemmeno di fronte alle numerose bestemmie di Antonio.
L’incontro con Jaber, la non-fiducia figlia dei pregiudizi razziali di cui è vittima il personaggio di Timi, è un’ottima metafora del rifiuto di un dialogo verso culture lontane dalla nostra ma in realtà molto più vicine di quanto si possa ritenere. Il razzismo di Antonio lo porta a reagire con rabbia anche ai gesti più generosi del ragazzo turco che, nella speranza di guarire il piccolo Pietro, lo unge con un olio curativo del proprio Paese. Ma forse non è mai troppo tardi per aprirsi all’accettazione del nuovo o per ammetterne la necessità: per trovare un lavoro e per farsi riparare la macchina il protagonista si affiderà all’aiuto – diretto o indiretto – del giovane arabo.
La sceneggiatura di Giuditta Tarantelli e dello stesso Mirko Locatelli si muove con fluidità tra le pieghe di un animo esausto ma non rassegnato, convinto di bastare a se stesso ma in realtà bisognoso di aiuti esterni, anche se qualche raro passaggio appare un po’ troppo facile (il bambino a cui passa la febbre dopo essere stato unto da Jaber) o poco chiaro (che necessità ha Antonio di lavorare in nero la notte?), ma nel complesso viene ampiamente riscattata da una regia di un’intensità invidiabile, che riesce a dare un valore assoluto anche al gesto più banale.
La frase:
"Ora mio figlio puzza come te e l’amico tuo".
a cura di Luca Renucci
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