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"Un road movie al contrario", così la regista svizzero-francese Ursula Meier ha definito il suo film. La ragione è presto detta: i protagonisti della vicenda, una coppia con tre figli, vivono in una casa che si affaccia su di un autostrada da anni abbandonata, ma prossima alla riapertura. Di movimento esterno ce n'è quindi ben poco: la strada qui rappresenta non un espediente per scappare, ma limite fisico, elemento che rinchiude anziché aprire. Tutta la narrazione si svolge lì, in pochi metri quadrati, a due passi da quattro corsie che, una volta restaurate, vedono sfrecciare migliaia di auto ogni giorno, occhi indiscreti di passeggeri che per qualche attimo, salvo che non ci sia traffico e allora si parla di minuti e ore, possono scrutare dentro la vita di quotidiana di quella che un tempo era una famiglia felice.
Ursula Meier ci racconta questo dividendo, abbastanza schematicamente, il film in due tronconi. Nella prima parte, quando la casa è un luogo isolato lontano da tutto, ci mostra tutti i protagonisti sereni, felici di un’intimità assoluta che gli fa vivere al massimo ogni momento. Nella seconda parte, quando i caselli prendono a funzionare e l’asfalto diventa bollente, ci racconta la spirale di malessere che colpisce la famiglia: lo spazio fisico diminuisce e l’intimità esasperata pone le basi di un nervosismo crescente. Il chiavistello di questa svolta narrativa è il rumore: è il suono crescente di macchine e camion che chiude sempre più i personaggi all’interno delle mura di casa, è questo l’elemento esterno che stravolge gli equilibri interni.
Toni grotteschi per una storia metaforica che, per quanto possa avere alte ambizioni e varie chiavi di lettura, si adagia ben presto sulla propria riflessione, senza ricerca di ritmo e, ogni tanto, anche di ironia, troppo concentrata nel suo voler dire qualcosa che alla fin fine ha ben poco di illuminante. Compreso il fatto che l’autostrada avrà un cattivo effetto sui personaggi, Home continua diritto fino ad una conclusione piuttosto scontata, quasi fiero della propria criticità. Ursula Meier ha senza dubbio delle qualità, alcune scene sono molto interessanti per la gestione degli spazi, e anche la sua direzione degli attori è ottima (ha al suo arco comunque frecce di prima qualità come Isabelle Huppert e Oliver Gourmet), ma il suo primo lungometraggio appare troppo volutamente intellettuale per convincere davvero.

La frase: "E poi al chiasso ci siano abituati...".

Andrea D’Addio

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