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Ghost StoriesLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio11 aprile 2018Voto: 6.5
Se è vero che le cose non sono sempre come sembrano, è probabilmente vero anche che il cervello vede quello che vuole vedere.
Ne sanno qualcosa i britannici Jeremy Dyson e Andy Nyman, che, con lo sguardo rivolto ad antologie cinematografiche del calibro de “Le cinque chiavi del terrore” (1965) di Freddie Francis, “La bottega che vendeva la morte” (1974) di Kevin Connor e “Incubi notturni” (1945), diretto a otto mani da Alberto Cavalcanti, Charles Crichton, Basil Dearden e Robert Hamer, decidono di portare sul grande schermo il loro spettacolo teatrale horror che si presentava, in fin dei conti, in qualità di sorta de “I monologhi della vagina” in chiave ghost story, con tre uomini impegnati a raccontare vicende agghiaccianti seduti su uno sgabello. Ed è lo stesso Nyman ad incarnare il professor Philip Goodman, che, noto a tutti per il suo proverbiale scetticismo nei confronti di qualsiasi evento sovrannaturale, conduce un programma televisivo in cui smaschera le “truffe paranormali” e si trova ad indagare su tre sconcertanti casi riguardanti, appunto, fenomeni ultraterreni. Casi a cominciare da quello di Tony Matthews alias Paul Whitehouse, che, guardiano notturno presso un ex manicomio, viene perseguitato da un evento collegato al passato durante la sua ultima notte di servizio. Nel corso di un primo tassello che, immerso in una cupa e fredda ambientazione non distante da quella che caratterizzò il cult carpenteriano “Fog” (1980), si rivela probabilmente il migliore del trittico, capace di incutere non poco terrore tra lunghi e minacciosi corridoi bui e piuttosto inquietanti manichini. Prima che si passi al problematico ventenne Simon Rifkind interpretato da Alex Lawther, la cui situazione, rimasto nottetempo in panne con l’automobile in una oscura foresta, richiama in un certo senso alla memoria quella dell’episodio conclusivo di “Creepshow 2” (1987) di Michael Gornick; man mano che trova spazio anche una soggettiva chiaramente derivata da “La casa” (1982) di Sam Raimi. Per poi approdare al Mike Priddle dalle fattezze del Martin Freeman della trilogia “Il Signore degli Anelli”, il quale, odioso agente di borsa e gentiluomo di campagna che attendeva con ansia la nascita del suo primogenito, è protagonista di un segmento piuttosto irrilevante e banale destinato ad anticipare, però, le interessanti rivelazioni conclusive dell’operazione. Perché, sebbene l’epilogo finisca per adagiarsi su un twist ending già troppe volte sfruttato nell’ambito della Settima arte, ad anticiparlo provvedono almeno un paio di affascinanti colpi di scena che, in parte manifestanti il gusto della serie televisiva “Ai confini della realtà”, in parte il sapore di determinate storie adolescenziali di Stephen King, forniscono una interessante maniera attraverso cui rileggere la tematica del bullismo filtrandola nel genere. Al servizio di un insieme che, visivamente accattivante, si evolve lento riuscendo realmente a spaventare in più occasioni il sempre più smaliziato spettatore d’inizio terzo millennio, sia tramite l’immancabile ricorso al sonoro per provocare balzi dalla poltrona, sia grazie ai raccapriccianti primi piani degli spettri. Con il maggiore pregio individuabile proprio nella scelta di confezionare un film di paura ricorrendo al look della vecchia scuola, ulteriormente testimoniato dalla mitica “Monster mash” di Boris Pickett & The Crypt-Kickers posta a commento dei titoli di coda. La frase dal film:
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