Gabrielle - Un amore fuori dal coro
Gabrielle è una ragazza di 24 con un deficit intellettivo, la sindrome di Williams-Beuren. Nonostante sia amata ed accudita dalla sorella, che desidera raggiungere il proprio compagno in India, la ragazza vive in un centro per persone con handicap. Innamorata del compagno Martin, che come lei canta nel coro dell’istituto e che la ama a sua volta, sogna di poter condurre una vita “normale” con il fidanzato al di fuori delle mura in cui alloggiano, le quali portano con sé delle regole (la castità) da rispettare. Sempre più desiderosi di esplorarsi fisicamente e di ottenere una propria indipendenza, i due incontreranno un ostacolo nella madre di Martin, preoccupata per le conseguenze che l’entrata nel mondo degli adulti provocherebbe al figlio. Tramite –anche- la passione per la musica, Gabrielle e il fidanzato affronteranno un percorso difficile in cui è in gioco la rivendicazione della propria “normalità”.
Un grave pericolo si nasconde dietro i film che, come “Gabrielle”, si schierano dalla parte dei deboli, degli emarginati, degli invisibili alla società: il rischio che la ricerca di una forte empatia e di potenti sentimenti, con cui si intende portare avanti il messaggio dell’opera, arrivi, alla fine, a sovrastare e soffocare il messaggio stesso. In questo caso la regista canadese Louise Archambault, alla direzione del suo secondo lungometraggio, era ben consapevole dell’insidia, e per evitare di avvicinarcisi si è sbilanciata dalla parte opposta. Temendo alla follia una caduta nel melodramma, qui si è optato per una messinscena che si tiene un po’ troppo lontana dall’essenza dei personaggi per garantire la partecipazione emotiva del pubblico a una storia che, oltre a voler far riflettere in modo onesto e, quindi, senza “furbate”, richiede un coinvolgimento da parte dello spettatore, se non viscerale, almeno profondo. Non si tratta assolutamente di un film senz’anima, anzi, a tratti riesce ad essere toccante e consegna un messaggio di umanità in maniera chiara ed efficace, ma dispiace percepire costantemente che la regista si costringe a restare al di qua di un limite che si è autoimposta. Lo stile con cui “Gabrielle” è girato, in bilico tra il narrativo e il documentaristico, anche se ormai è un po’ troppo abusato per essere davvero d’effetto, è adeguato al tono della storia e a ciò che le sta intorno: se la vicenda raccontata è una finzione, chi la interpreta non lo è affatto. Gabrielle Marion-Rivard, che non ha mai studiato recitazione, non condivide con il proprio personaggio soltanto il nome, ma anche la sindrome di Williams (a differenza di Alexandre Landry che interpreta Martin).
La frase:
"Vorrei decidere della mia vita come te, vorrei essere normale come te".
a cura di Luca Renucci
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