Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma
Dopo il successo di “Seven Swords”, presentato al Festival di Venezia nel 2005, il regista vietnamita Tsui Hark, ci riprova e porta alla 67ª edizione del Festival “Detective Dee and the Mistery of Phantom Flame”, in corsa per il Leone d’oro.
Fedele al genere che gli ha dato successo, Tsui Hark regala due ore di pure emozione wuxia, il genere cinese che tratta di leggende e arti marziali, tinto di giallo.
Nel 690 d.c., in Cina, all’epoca della dinastia Tang, la reggente Wu Zetian, vedova dell’imperatore precedente, è pronta per essere incoronata, sarebbe la prima donna a portare i vessilli imperiali, e com’è ovvio molti sono quelli che complottano contro di lei. Dopo una serie di strani avvenimenti, e morti cruente, la futura imperatrice decide di affidare l’incarico di risolvere il mistero a Di Renjie, ex giudice della corte imperiale, in prigione per sospetto tradimento. La storia si basa su personaggi realmente esistiti, e molto importanti per la storia cinese. Il tocco di mistero, la magia e alcuni degli eventi sono ovviamente frutto dell’immaginazione, ma sono influenzati dai racconti dello scrittore olandese Robert Van Gulik, che per primo aveva trasformato il giudice Di Renjie in un detective alla Sherlock Holmes, modificandogli il nome in Detective Dee.
L’intrico misterioso si sviluppa lungo tutto il film, numerosi colpi di scena e suspense tengono incollato lo spettatore che inevitabilmente vorrebbe al più presto arrivare a risolvere l’arcano. Anche perché in ogni momento, pare che il pericolo di morte sia nell’aria, e se si indugia troppo nel trovar la soluzione, si finisce col rimanere vittime di una terribile magia. Questa è la sensazione che aleggia lungo tutto il film, sicuramente aiutata da quell’atmosfera misticamente orientale ben rappresentata nella pellicola.
Visto il costo della pellicola, 13 milioni di dollari, non ci si stupisce che questa produzione cinese possa essere ben accolta anche da un pubblico occidentale, dato che la ricerca del particolare e l’utilizzo degli effetti visivi è spinto ad un livello talmente alto che sembra difficile riuscire a credere che si sta assistendo ad un film di una cultura così diversa dalla nostra.
Ma non si deve erroneamente credere che sia la tradizione orientale ad avvicinarsi al tipico Cinema di Hollywood, non completamente almeno. Certo la grandiosità e la commercializzazione del film lo rendono molto vicino ai tipici blockbuster, ma questa è l’unica cosa che gli si può imputare. Per il resto è la capacità di rendere semplice anche per un occhio occidentale, la visione di un mondo così diverso, ma allo stesso tempo affascinante e intrigante, tanto che riusciamo a farlo nostro.
La grandiosità delle scene, l’accurata attenzione ai particolari che ricreano le atmosfere e i luoghi della Cina di quell’epoca, completate da un precisa interpretazione degli attori nei gesti e negli atteggiamenti, così stravaganti ma così terribilmente naturali, tutto questo è ciò che rende così agevole la chiave di lettura del film.
È un po’ come essere catapultati in una di quelle stampe cinesi dai colori sgargianti, e dal significato impenetrabile, ma così maledettamente seducente, il tutto condito da una buona dose di mistero, amore, magia, azione.

La frase: "Ricordati, la grandezza vuole grandi sacrifici".

Monica Cabras

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