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Ti guardoLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Riccardo Favaro10 settembre 2015
Provate a dirlo senza parole. Se non vi riesce, provate a dirlo da lontano.
Questo è un film di perseveranza, dopo tutto. E' una sorta di presa d'atto, una professione di impegno, un lungo affondo nell'animo pulsante dei nostri pregiudizi psicanalitici. In fondo, è un inno alla disillusione. Armando, un uomo di mezza età sul baratro della sociopatia, lavora in uno studio di protesi dentali a Caracas e nel tempo libero investe denaro per spogliarelli privati di giovani ragazzi che trova per strada (la masturbazione scappa ma lui non li sfiora nemmeno, questo va precisato). La sua vita viene bruscamente sconvolta dalla ribellione, per la verità presentata un po' precocemente, di Elder, un ragazzo di strada (o “di vita”, per citare Pasolini) che rifiuta di calarsi le braghe, lo picchia e scappa derubandolo. Di qui in avanti l'avvicinamento dei due, il “gioco di ruolo” che si viene a costituire, porta il giovane a privarsi lentamente della maschera di delinquentello dal passato, presente (e futuro) turbolento alla scoperta di una passione erotica per Armando. Naturalmente (neanche servisse dirlo) giungendo ad inaspettate conseguenze. Il soggetto, corposo e scomodo, è di Guillermo Arriaga (meglio conosciuto come “quello che ha fatto la fortuna di Inarritu) e l'esordio alla regia di Lorenzo Vigas lo gestisce con ottimo ingegno: la narrazione viene ridotta ai mini termini sia in termini visivi, con lo studio di quadri geometricamente espressivi e dinamicamente statici, sia in termini verbali, con la forza di schemi dialogici ridotti all'osso. E per forza di cose il silenzio è ingordo e tenta di divorare tutto quanto, ma il dramma psico-erotico che viene imbastito resiste con autorevolezza. Ottima la prova dei due attori principali, Alfredo Castro e un sorprendente Luis Silva (in un ruolo spigoloso). Ogni azione ruota attorno alla paternità, alla solitudine, alla solitudine della non-paternità o ancor meglio alla paternità della solitudine: in questo senso Armando sembra ricondurre la propria repressione sessuale e la propria taciuta autocommiserazione proprio alla figura del padre (un evanescente signorotto in giacca e cravatta che si vede in poche sequenza ma lascia intuire un passato di violenze), mentre Elder si ritrova a vivere con la madre (perché il papà dopo averlo pestato a iosa in tenera età ha pensato bene di ammazzargli un amico “per sfizio”) e pare accusare proprio la mancanza di un archetipo maschile dominante (così reagisce, e ne combina di tutti i colori). Fioriscono due paternità: la, maligna e spietata, come “paternità” da far soccombere per non soccombere nei propri sensi di colpa; la seconda è una “paternità” necessaria, emancipata da legami puramente di sangue e gravida invece di alienazioni di carattere erotico. Tutto viene edificato su vari piani, come i piani della macchina da presa così i piani dei labirintici (e mal frequentati) palazzi di Caracas, i piani alti del padre di Armando, i piani bassi della violenza fisica e verbale (forte la parabola omofoba) e i piani contraddittori della relazione che si crea tra i due protagonisti. I generi di violenza affrontati, come la violenza di rapporto, la violenza e la prevaricazione sociale, il sopruso come lessico giovanile globale o la violenza della repressione inflitta e auto-inflitta, vengono trattati con corrispondente “violenza formale” fin troppo soppesata (per questo sono ingenerose e gratuite le critiche di chi denuncia “fastidio” per le scene di sesso). Probabilmente è solo sconfortante constatare come lo scenario dipinto (o più precisamente “fotografato”) sia esente da moralismi ma soprattutto da “sentimenti” puri, fatta eccezione forse per l'ingenuo e spontaneo amore di Elder che Armando, in un finale che lascia storditi, respinge con la fierezza di chi preferisce relegare la propria esistenza all'infelicità del desiderio. La frase dal film:
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