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Cronaca di un assurdo normale











Chissà se, ai tempi dell’ironico "Arresti domiciliari" (2000), il romano Stefano Calvagna – autore de "L’uomo spezzato" (2005) e "L’ultimo ultras" (2009) – aveva pensato che, un giorno, quella tutt’altro che piacevole condizione suggerita dal titolo del suo esordio registico si sarebbe trovato a viverla in prima persona, raccontandone tutti i retroscena nel libro "Cronaca di un assurdo normale" e all’interno di questo omonimo lungometraggio, nel quale interpreta se stesso.
Un excursus tutt’altro che lineare che, strutturato in cinque capitoli parallelamente incentrati sul fatto di cronaca e sulla preparazione del film, parte dal 2009 per poi passare al 2011, mostrando sia l’attentato fatto al regista nel quartiere di San Saba che il suo arresto; senza dimenticare, però, tappe fondamentali riguardanti il periodo precedente, dall’incontro con l’ambiguo "camiciaro" alla società con Crimei, cui concede anima e corpo un ottimo Bruno Pavoncello.
Perché, sebbene la recitazione non riesca nell’impresa di risultare sempre convincente nel corso dei circa ottantanove minuti di visione, bisogna dire che diversi sono i componenti del cast perfettamente in parte, dal cineasta indipendente Emanuele Cerman, nel ruolo di se stesso, alla televisiva Chiara Ricci in quello della moglie del protagonista; senza contare la breve ma intensa prova del semi-esordiente Diego Bottiglieri, impegnato a incarnare il killer Melis.
Mentre non sono assenti frecciatine alle sitcom e alla commedia italiana d’inizio XXI secolo, tempestata di tette e battute volgari, e Calvagna, che ottiene uno dei migliori momenti della propria filmografia nella sequenza della chiacchierata al ristorante riguardante il contratto Rai, trova anche il tempo di accennare una vera e propria denuncia nei confronti dei disumani trattamenti riservati ai detenuti in carcere.
Per un insieme non esente da difetti che – girato in due settimane e mezzo con soli quindicimila euro di budget – potrebbe rischiare di apparire eccessivamente personale agli occhi di molti, racchiudendo, però, il suo principale motivo d’interesse proprio nella scelta di raccontare la drammatica esperienza di un uomo di spettacolo in fin dei conti uguale a qualsiasi altro comune mortale.
Oltre al fatto che, a differenza delle precedenti fatiche calvagnane, si ricorre in maniera efficace a una fusione tra la classica narrazione cinematografica di stampo “commerciale” e dialoghi diretti con il pubblico, tipici del teatro o di una certa produzione definita "d’autore". Rendendo ancor più curioso un esperimento destinato a esporre, inoltre, le difficoltà del fare cinema lontano dalle major e dai finanziamenti statali in un paese in cui non solo la Settima arte sembra essere sempre più terreno fertile per soggetti poco raccomandabili, ma è "Strana la vita"... come canta Franco Califano sui titoli di coda.

La frase:
"Siamo qui per raccontarvi una storia, la mia storia".

a cura di Francesco Lomuscio

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