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Adieu au langage - Addio al linguaggio











L’anno di realizzazione dell’operazione è il 2014, quindi facente parte del millennio in cui sofisticati stratagemmi tecnici quali il sistema di visione tridimensionale si sono preoccupati di rendere sempre più reali e, di conseguenza, lontani dal look di sogni di celluloide perfino i racconti da grande schermo maggiormente volti alla fantasia.
Chi, sfruttando la semplicissima idea di una donna sposata e un uomo solo che si incontrano, si amano e litigano, avrebbe potuto dire la sua nei confronti di un cinema sempre più distante dai connotati di verità ricostruita su pellicola, se non il Jean-Luc Godard che, fin dai tempi del proprio lungometraggio d’esordio “Fino all’ultimo respiro”, ovvero uno dei titoli che hanno contribuito in maniera fondamentale alla nascita della Nouvelle vague tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, ha provveduto a suggerire allo spettatore che ciò che guarda seduto in sala è soltanto una finzione?
Non a caso, sebbene si citi il pittore e padre dell’Impressionismo Claude Monet tramite il pensiero “Non dipingiamo ciò che vediamo poiché non vediamo nulla, ma dipingiamo ciò che non vediamo”, è il concetto secondo il quale chi non ha immaginazione si rifugia nella realtà a dare il via a settanta minuti di visione la cui prima missione è, appunto, svelare l’origine di quel 3D che tanto contribuisce a conferire l’illusione di concreto rilievo e profondità delle immagini.
Quel 3D che il cineasta parigino “smonta” in maniera geniale attraverso la fastidiosa (per la vista) sovrapposizione di due distinte sequenze che siamo costretti a guardare prima con un occhio, poi con l’altro, ad intermittenza; segnando soltanto l’avvio di un percorso che, tirando in ballo sia un cane vagante tra città e campagna che la dichiarazione universale dei diritti degli animali, intende effettuare, probabilmente, un progressivo ritorno alla natura della Settima arte, ormai destinata, a quanto pare, a dire addio al proprio linguaggio.
Quella natura in cui non c’è nudità, tanto che privi di vestiti (e con lui sul water impegnato ad emettere peti) vengono quasi sempre immortalati i due protagonisti; man mano che, a ritroso, si passa da citazioni televisive di vecchi film in bianco e nero ad una Mary Shelley alle prese con la stesura del suo “Frankenstein”, ovvero una delle primissime (se non la prima) creature fantastiche passate dall’inchiostro su carta ai fotogrammi.
Fino ai pianti di un neonato che intendono, forse, lasciar intendere una rinascita dopo l’obbligatorio tramonto del cinema che l’autore di “Due o tre cose che so di lei” – il quale non dimentica neppure di ribadire che è in atto una guerra della società contro lo Stato – inscena rimanendo profondamente coerente a quello che, da sempre, è il suo anticonformismo.
Infatti, non solo – per merito anche dei pensieri ripetuti in sequenza – sembra riallacciarsi al periodo che lo trovò non poco impegnato dal punto di vista politico (pensiamo agli anni in cui interagì con il collettivo denominato “Gruppo Dziga Vertov”), ma non esita affatto a ricorrere – a cominciare dall’audio che, occasionalmente, s’interrompe all’improvviso – agli immancabili espedienti atti, come sopra spiegato, a svelare la finzione dello spettacolo.
Come di consueto, quindi, lascia emergere il suo desiderio da intellettuale borghese birbante (e criticabile quanto vi pare) di prendere a pugni nello stomaco (divertito?) il pubblico; irritato da un elaborato più metacinematografico che metaforico a causa della logica incomprensibile, se non, addirittura, volutamente inesistente.
Sta di fatto, però, che l’”Adieu au langage” non possa fare a meno di incarnare perfettamente il saggio-canto del cigno di un regista forse genio, forse bluff, i cui lavori più “astratti”, mai come in questo caso, è chiaro che vadano visti non per essere compresi, ma per apprendere la filosofia celata dietro al “cinema classico” – al quale non appartengono – nel periodo storico del loro concepimento.

La frase:
"La cosa difficile è far entrare il piano nella profondità".

a cura di Francesco Lomuscio

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