2047: Sights of Death
Senza alcun dubbio, vuole essere un omaggio al biochimico e scrittore russo autore de “Il tiranno dei mondi” e “Io, robot” il temibile colonnello Asimov incarnato da Rutger Hauer, il quale, coadiuvato dal maggiore Anderson alias Daryl Hannah e da alcuni mercenari senza scrupoli guidati da Lobo, ovvero il Michael Madsen de “Le iene” (1992), si trova immerso in un 2047 dove il nostro pianeta è amministrato cinicamente e con la repressione da un governo confederato centrale, mentre i paesi che non hanno aderito sono terra bruciata.
Sotto la regia dell’Alessandro Capone che firmò, tra gli altri, l’horror “Streghe” (1989) e la commedia “E io non pago” (2012), con le fattezze dello Stephen Baldwin de “I soliti sospetti” (1995), però, l’eroe della situazione è Ryan, agente dei ribelli di GreenWar inviato in missione allo scopo di raccogliere delle prove per inchiodare l’ala militare del governo ai suoi crimini efferati.
Ed è Sponge, capo dell’organizzazione interpretato dal Danny Glover di “Arma letale” (1987), il suo mandante, nel corso di una impresa destinata a trasformarsi presto in una intima resa dei conti che riguarda molto da vicino il proprio tormentato passato, man mano che dalla sua parte trova Tuag, con il volto di Neva Leoni, sopravvissuta e, forse, mutante.
Quindi, con il Marco Bonini di “Diciotto anni dopo” (2010) incluso nel cast, il filone post-atomico su celluloide di matrice italiana – in auge soprattutto ai tempi di “1990: I guerrieri del Bronx” (1982) di Enzo G. Castellari e “2019-Dopo la caduta di New York” (1983) di Sergio Martino – torna a far parlare di se anche ad inizio XXI secolo grazie all’intraprendenza di Andrea Iervolino, che produce il tutto.
E lo fa attraverso un’operazione il cui principale motivo di interesse, ovviamente, è individuabile nel coinvolgimento delle citate star hollywoodiane, catapultate in diroccate scenografie opportunamente ritoccate in digitale che, tramite il continuo ricorso ad inquadrature strette per camuffare le ristrettezze di budget, effettuano dignitosamente il loro lavoro di conferire una certa atmosfera da fanta-film futuristico di taglio internazionale.
L’aspetto, quest’ultimo, che ci spinge a salvare un insieme probabilmente penalizzato dall’eccesso di chiacchiere (con tanto di frasario da machismo reaganiano) e dai lenti ritmi di narrazione a dispetto dei pochi momenti d’azione (abbiamo anche i due personaggi impegnati a puntare l’uno la pistola contro l’altro, in puro stile John Woo)... ma al quale va riconosciuto il merito di tornare a mutare impensabili luoghi dello stivale tricolore in inferni da dopobomba, come si faceva ai tempi d’oro del cinema di genere nostrano che tanto piace(va) a Quentin Tarantino.
La frase:
"L’inferno non deve essere male, là fa caldo per lo meno".
a cura di Francesco Lomuscio
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