La vita segreta delle api
America del sud, estate del 1964. L’adolescente Lily Owens (Dakota Fanning) vive col padre T.Ray (Paul Bettany) e la tata Rosaleen (Jennifer Hudson) nel cuore assolato del South Carolina. Tra un’inginocchiata sulla farina d’avena e l’altra, riceve dal padre sferzate di astio incondizionato che le fanno pesare sempre di più l’assenza di un’amorevole figura materna accanto. Essendo orribilmente responsabile lei stessa, almeno in parte, di quest’incolmabile vuoto, scappa di casa assieme all’affezionata governante e finisce col macinare chilometri per approdare ad un luogo ricco di memoria altrui. La pittoresca casetta color "rosa caraibico" abitata dalla sorellanza apicoltrice di August, June e May Boatwright (Queen Latifah, Alicia Keys, Sophie Okonedo) è il nido accogliente nel quale la ragazzina ritroverà se stessa e un pizzico d’equilibrio... oltre alle risposte ad un mucchio di domande lacrimose delle quali spesso ci si chiede in sala il grado di plausibilità. Conflitti razziali e diritti civili si fanno mera scenografia: il resto, spiace dirlo, è purissimo Opra Winfrey Show.
Se "emotivo" è un puro eufemismo, ecco questo "Secret life of bees" ricalcare, oltre che il titolo, anche il tono didattico-carezzevole d’un sussidiario elementare. Il mucchio di drama più o meno soverchiante che s’accumula nell’arco della narrazione - una bambina di quattro anni che spara accidentalmente alla propria madre, uccidendola; un padre padrone privo delle più elementari affezioni umane; il suicidio di una mentalmente instabile; il massacro di un giovanissimo afroamericano reo d’aver diviso un cinemino con la coetanea bianco-latte - è diluito in dorate e appiccicose cucchiaiate di melassa, come fosse medicina troppo amara per un pubblico ritenuto d’intelligenza medio-bassa. Il cast stellare fa quel che può: la macchina da presa indugia innamorata su profili bronzei e occhioni parlanti, mentre la perlacea Dakota, ufficialmente una giovane promessa, regala l’ennesimo saggio dell’espressività dolente regalatale da un fato benigno.
Latifah è una rassicurante matrona dispensa-coccole, Keys l’affascinante e apparentemente arida attivista politica, Okonedo lo svagato e ipersensibile anello debole della catena; Bettany, per contro, digrigna i denti con piglio molto meno british del solito.
Jennifer Hudson, che qui non sfocia le doti canore con cui trionfò a suo tempo in quel di American Idol (e, soprattutto, nel cinematografico "Dreamgirls"), conferma un’intensità non banale. Ma, figurine stereotipate a parte, rassicurante e mieloso (è il caso di dirlo) fino alle soglie della nausea, il film non riesce mai a liberarsi dal sapore fictional-televisivo in cui s’invischia sin dalle prime battute; a dirla tutta, pare non provarci neanche. Si crogiola invece in un continuo tentativo di rapinare a mano armata la lacrimuccia facile, rinunciando in partenza a fornire qualunque spunto di autentica riflessione. Riportiamo per mero dovere di cronaca che l’origine è novellistica (omonimo il romanzo a firma Sue Monk Kidd). Quanto all’esito, beh, non dimenticate lo spazzolino: troppo zucchero, si sa, caria i denti.

La frase: "Ho più madri io che qualsiasi ragazza in circolazione".

Domitilla Pirro

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