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Fair Game (Caccia alla spia )
Un fatto vero per il regista Doug Liman: lo scandalo Plame, esploso negli States nel 2003. Naomi Watts e Sean Penn si calano nei panni della coppia Valerie Plame e Joseph ‘Joe’ Wilson: dai loro due libri gli sceneggiatori traggono ispirazione per questa spy story dai toni e modi liberal-retro.
Nell’ottobre 2001 Valerie è un’agente CIA sotto copertura, incaricata di verificare la presenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. Una doppia vita: è sposata, con prole, con Joseph, diplomatico, esperto in questioni africane e mediorientali, inviato in Niger dalla CIA per trovare la conferma della vendita di uranio arricchito al regime di Saddam Hussein, che darebbe a George W. Bush la prova della fornitura del materiale per la fabbricazione delle famigerate armi e il ‘la’ per iniziare l’offensiva bellica. Solo che Joe non trova traccia di questi traffici: nulla dimostra che siano mai avvenuti. Il suo rapporto ufficiale viene reinterpretato secondo bisogno e Joe affida il suo j’accuse a un’editoriale del New York Times, in cui attacca pesantemente l’amministrazione Bush. Una settimana dopo un giornalista del Washington Post, Robert Novak, rivela l’identità di agente CIA della Plame, con la conseguente fine della carriera dell’agente. Iniziò così il Plamegate o Plame affair, uno scandalo vero e proprio che si risolse con la condanna di Lewis Libby - vicino al vicepresidente Dick Cheney - accusato di essere il responsabile della fuga di notizie su Valerie Plame.
Unico film americano in concorso al Festival di Cannes, Fair Game mette ancora una volta il dito nella piaga delle verità sottaciute e del ginepraio che è l’Iraq e la politica statunitense di George W. Bush. Gli sceneggiatori, i fratelli Butterworth, di fronte al pullulare di film analoghi, scelgono, per mantenere viva la tensione, una prospettiva differente, l’occhio puntato sulla crisi privata e familiare, provocata dalle menzogne esterne, che minano la fiducia e la coesione della coppia. È da dimenticare il ritmo di The Bourne Identity del 2002, ma anche le défaillance di Mr. & Mrs. Smith e Jumper: qui Doug Liman abbandona volutamente l’azione, per concentrarsi su una frenesia tutta legata alle dinamiche di coppia, che sono specchio e risultato paradigmatico della politica della menzogna. Quindi se i toni sono meno serrati dal punto di vista di action, si concentrano tutti nel parossismo alla ricerca della verità e della salvezza della propria dignità, per se stessi e per la propria famiglia. Lo stile si rifà a quello dei classici di spionaggio e di denuncia socio-politica degli anni Settanta: richiamati perfino dalla fotografia, dalle inquadrature, dai dialoghi, che non possono non ricordare capolavori liberal di quegli anni, quali i film interpretati dal grande Robert Redford.
La frase: "Da mesi ci si lascia dei post-it… Noi ci parliamo tramite post-it, il frigorifero assomiglia a un fermoposta".
Donata Ferrario
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