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Autore Gara di recenzioni
gmgregori

Reg.: 31 Dic 2002
Messaggi: 4790
Da: Milano (MI)
Inviato: 03-04-2003 05:15  
io ho messo una vecchia!
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la bruttura del vuoto è tanto profonda fin quando, cadendo, non ti accorgi di poterti ripigliare. I ganci fanno male, portano ferite, ma correre e faticare per poi giorie è un obbiettivo per cui vale la pena soffrire.
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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 03-04-2003 06:31  
Ero indeciso tra Buster Keaton e Cantando sotto la pioggia, e ha vinto quest'ultimo sopprattutto perchè sicursmente è più conosciuto di quanto non lo sia il genio degli anni 20.


E' sempre difficile giudicare un film quando questo film fa parte di un genere così fortemente caratterizzato e soprattutto quando questo film è un film ricco di vitalità che tocca e inventa certe peculiarità della vita dell’uomo: il ballo, il movimento nettamente connotato se non traslato nella gioia, nella pura libertà del corpo in azione. Il musical, come il comico ad esempio, nasce e si sviluppa su più registri. Siamo sempre dentro la disciplina del cinema, ma questa oltre a costruire e presentare uno spazio deve per forza fare qualcos'altro. E questo qualcos'altro fa parte di tutte quelle acquisizioni che il cinema nella sua personale storia ha inventato. Questi due generi segnano e evidenziano come il Cinema nella sua storia sia stato capace di ritagliarsi per se stesso e su se stesso una sua particolare autonomia di espressione Il musical fa quindi parte del cinema, quando ovviamente questo è costruito per inquadrature e pensato per avere oltre ad un ritmo interno (la recitazione e la coreografia) anche un ritmo esterno (la regia). E qui allora nasce la differenza dal teatro. I diversi punti di angolazioni, i punti di vista, la vicinanza da soggetto, la diversa costruzione del fuori campo e così via.
“Cantando sotto la pioggia” è quindi uno di quei film che mettono in evidenza alcune delle principali strutture nascoste del cinema. E questo soprattutto grazie alle coreografie e alla musica. Ma come detto poco sopra i film di genere fanno parte di quel cinema che oltre ad utilizzare la messa in scena delega alla dimensione tematica della narrazione uno degli aspetti più fondamentali. E lo fa in maniera molto più evidente se consideriamo che il musical ha la capacità di sospendere in alcuni momenti la realtà attraverso la rappresentazione di un mondo narrativo etereo, doppio, reale e pretestuoso. Nessun altro genere si può permettere, con così stupefacente semplicità, le improvvise e continue fughe dalla rappresentazione naturalista pur restando sempre all’interno di una coerenza accettabile e passivamente accettata. Seppure questo silenzioso patto stipulato tra fruitore e spettacolo cinematografico sia una costante di questo genere si deve allo stesso tempo ammettere che “Cantando sotto la pioggia” riesce, anche meglio di altri musical, ad integrare con efficacia i diversi aspetti di una realtà e della sua alterazione. La narrazione interna dei musical e in particolare di questo musical è l’elemento di principale importanza per potere iniziare un’analisi costruttiva.
Il film, ogni film commerciale, racconta una storia. Da questa storia parte. La storia sta quindi alla base del processo elaborativo della costruzione e invenzione delle immagini di un film, delle sue inquadrature e delle sue sequenze. La scelta di posizionare la storia nel 1927 quindi, per un musical, appare essere una scelta decisamente particolare. Il ‘27 è stato infatti l’anno cruciale del cambiamento della storia del cinema e del suo sistema naturalistico di rappresentazione. “Cantando sotto la pioggia”, posizionando la propria storia secondaria negli eventi storici intercorsi in quest’anno, sottolinea attraverso la musica l’accelerazione della sonorità ai “danni” del cinema muto. La capacità della sceneggiatura di confondere lo spettatore è impressionante: l’ambientazione, il divismo, la visione dei film dell’epoca, i filmati dimostrativi sul potere della parola, la disputa tra teatro e cinema, gli Studios e il vaudeville concorrono a costruire un doppio registro di realismo. Il passaggio storico è così bene caratterizzato da confondere temporalmente lo spettatore. Quasi che si stesse assistendo in prima persona, o attraverso un ‘documentario’ a quel preciso momento storico. Questo succede per motivazioni, scelte visive e narrative precise, e per altri accorgimenti estremamente sotterranei. Innanzi tutto, come accennato, la riflessione, il ripiegarsi della trama sul mondo della pratica cinematografica, del suo fare e del suo costruirsi. In seconda istanza i continui passaggi lenti e avvolgenti tra i diversi piani di narrazione e quindi le diverse “realtà” del film. Se quindi esistono certamente precisi indizi sul metamondo che “Cantando sotto la pioggia” visualizza è evidente che questi aspetti fisici vengono attraversati e collegati attraverso la regia e l’utilizzo della narrazione. Esistono infatti continue unioni e attraversamenti di questi diversi spazi.
Per semplificare sarebbe corretto quindi fare un veloce elenco di questi luoghi che si sviluppano come tante scatole cinesi uno dentro l’altro. Limitando il campo di indagine e tralasciando quindi l’azione dello mettere in scena di Gene Kelly e Stanley Donen, si potrebbe iniziare a definire che “l’insieme potenza” (ovvero l’insieme più grande che è la somma di tutti i sottoinsieme più se stesso incluso, come aiuta il linguaggio della matematica) è costituito dagli eventi che narrano la storia nel suo generale: ovvero un breve passo della vita di Dan Lockwood, tra il suo essere attore, il suo amore per Kathy Seldon e la sua amicizia con Cosmo, il tutto all’interno dello Star System americano e l’America di fine anni venti. Per questa definizione l’elemento discriminante è quindi il realismo che permette di restituire gli aspetti più simili alla realtà e quindi, in altre parole, la vera e pura rappresentazione cinematografica di eventi il più vicino possibile ad una concretizzazione di un reale realista attraverso la schematizzazione più consona del raccontare per immagini.
All’interno di questo sistema si presenta subito il sottosistema narrativo della realizzazione dei film all’interno di “Cantando sotto la pioggia”. Questo aspetto metanarrativo è bene che sia evidenziato immediatamente perché ha rilevanza nelle considerazioni di ordine cinematografico e perché si compone di due parti. La prima parte è, come già detto, quella che presenta il mondo del cinema nella sua prassi dietro le quinte. Gli Studios, le scenografie, i registi al lavoro, gli attori. Esistono molti momenti del film dove questi aspetti vengono mostrati come luogo di Environment. Fanno parte dello sfondo di alcuni parti del sistema narrativo più grande. È sostanzialmente il luogo dove vivono e agiscono i personaggi del film, un’inevitabile messa a nudo di un mondo vissuto da chi sta davanti e dietro alla cinepresa.
Il secondo aspetto, quello più importante, riguarda appunto la realizzazione dei film messi in scena dentro a “Cantando sotto la pioggia”. Il principale tra questi, principale perché ha uno spazio maggiore nella durata del film e perché intorno alla realizzazione e produzione di questo metafilm gira buona parte del film, è “Il Cavaliere della Danza”, il cui protagonista è proprio Dan Lockwood.
La presenza massiccia di questo metafilm porta con se alcune riflessioni di carattere critico rilevanti. Innanzi tutto, per questa sua natura riflessiva, “Cantando sotto la pioggia” diventa spesso “Il Cavaliere della Danza” acquisendo quindi in questo senso una doppia e alternata valenza. Se da una aspetto prettamente narrativo il campo della trama si raccoglie intorno agli eventi del metafilm, la costruzione registica esprime tutto il suo valore in questa coincidenza. Succede infatti che, proprio come accade per la trama, ci si trovi in alcuni momenti ad assistere all’unione registica dei due film. “Cantando sotto la pioggia” diventa quindi “Il Cavaliere della Danza”. La macchina da presa di Donen e Kelly si avvicina a tal punto ai soggetti da escludere dal campo il regista della finzione che in quel momento sta dirigendo Dan Lockwood. Donen e Kelly mostrano quindi inizialmente un Totale il cui primo piano è spesso occupato dalla troupe, la fase successiva è uno stacco o un avvicinamento di macchina e quindi una focalizzazione dei metattori. La troupe e il personaggio del regista intervengono nel film visivamente, ma vengono relegati nel controcampo e nella breve durata temporale. La tipologia di regia di Donen e Kelly per queste scene è il piano sequenza. Lunghe inquadrature senza stacchi. Le stesse inquadrature che poi faranno parte del film finito e mostrato, in bianco nero, nelle sale cinematografiche e al pubblico verso la fine di “Cantando sotto la pioggia”. Il fatto che ci vengano presentate queste stesse inquadrature (seppure virate in bianco e nero) supporta pienamente il concetto rilevato sulla coincidenza narrativa e registica di due differenti film. Questa concetto di identificazione ricorda molto da vicino un altro capolavoro del cinema, “Sherlock Junior” di Buster Keaton. I sistemi narrativi potrebbero essere tra di loro molto simili seppure in “Cantando sotto la pioggia” non esista una distinzione così netta delle realtà come in Keaton. In “Sherlock Junior” sono due i complessi sistemi narrativi. Questi invece di coincidere e di unificarsi, se non nella durata generale del film stesso, si interescano e si toccano precisamente nel momento in cui Buster fisicamente lascia il reale d’azione per un reale di finzione entrando dentro lo schermo, dopo avere attraversato tutta la sala cinematografica dove il film viene proiettato. Ed è in sostanza l’opposto di quello che succede in “Cantando sotto la pioggia” perché se in Buster Keaton il “movimento” è dall’esterno verso l’interno, quindi verso un’identificazione assoluta con il mondo della narrazione del film dentro il film, in “Cantando sotto la pioggia”, seppure avvengano costanti unificazioni, esiste una trama indipendente, quella dell’insieme potenza che riporta costantemente verso l’esterno l’azione del film. Sostanzialmente la tendenza è quella dell’allargamento verso il “contenitore” più grande. L’esempio più chiaro è visibile verso un’ora e dieci minuti del film quando attraverso un movimento di macchina all’indietro vengono collegati il doppiaggio e la realizzazione de “Il Cavaliere della danza”, “Il Cavaliere della danza” ovvero il film dentro il film, e poi la ‘realtà’, ossia il luogo dove i personaggi di “Cantando sotto la pioggia” interagiscono e ‘vivono’. Stupendo esempio di come la tecnica e la scelta registica abbiano una rilevanza nella definizione teorica, e soprattutto pratica, delle distinzione, e quindi delle compenetrazione, dei diversi livelli narrativi.
Ma “Cantando sotto la pioggia” non è solamente un gioco di mondi narrativi compenetrati perché esistono, invero, diverse realtà che si sviluppano, si su diversi piani, ma a livelli egualmente importanti. Poiché come introdotto all’inizio il film è un film che si costruisce sul ritmo e sulla musica esistono parti precise dedicate a questi momenti. Anche in questo caso le motivazioni delle scelte sono costruite attraverso abili pretesti narrativi e precise scelte registiche che sono poi sostanzialmente le due principali componenti del cinema classico americano.
Per questo motivo visionando cronologicamente il film ci imbattiamo immediatamente nell’unico flashback del film dove Dan Lockwood racconta la sua vita artistica in un excursus temporale, che a partire dalla sua infanzia, ritorna al presente del suo racconto. Questo flashback permette immediatamente di offrire ai due registi la possibilità di presentare le abilità artistiche dei due protagonisti maschili, Gene Kelly e Donald O’Connor anche se, attraverso l’uso del flashback, la dimensione narrativa del film non viene particolarmente alterata perché ciò che viene rappresentato, o meglio ricordato, sono avvenimenti realmente accaduti. Non ci troviamo quindi di fronte alla caratteristica intrinseca del musical vero e proprio che sarebbe quella della sospensione di un realismo per rappresentare sentimenti o solo spiegazioni logiche di una sceneggiatura attraverso le parti cantate ma semplicemente di fronti a momenti che si appoggiano al genere e alle sue caratteristiche. Siamo comunque sempre dentro al campo dell’azione del musical e dei suoi stilemi di rappresentazione seppure le scelte e le integrazioni con il sistema narrativo dell’insieme potenza abbiano una maggiore prevalenza. È infatti difficile, se non in due momenti precisi del film, assistere ad una sceneggiatura o a dialoghi che siano musicati e cantati. In questo “Cantando sotto la pioggia” tenta di rinnovare l’ormai declinato genere del musical attraverso l’articolato e complesso modello di una sceneggiatura raccontata e visualizzata con elaborazione e con continuo movimento e non semplici canzoni sostituite a dialoghi.
Tutto il film, comunque, si alternerà attraverso due diverse principali modalità di rappresentazione. Da una parte quindi le scelte più realisticamente probabili per accompagnare racconti e rappresentazioni dei film vengono caratterizzati attraverso la danza e la canzone, dall’altra invece l’utilizzo vero e proprio del musical e del suo sistema estraniante per sottolineare determinati avvenimenti dove la realtà naturalista viene sospesa a favore di una fuga dal reale.
Le parti spiccatamente dedicate alla danza e all’intermezzo cantato hanno quindi una componente registica di tutt’altro tenore rispetto alle prime perché rivelano la loro natura costruita e sospesa e di conseguenza una differente impostazione stilistica. La macchina da presa invisibile e segreta, capace di costruire e cogliere, in una narrazione spersonalizzata lo sviluppo della trama e dei dialoghi si trasforma improvvisamente in un punto di convergenza per gli attori. Come le costruzioni di Interni in Buster Keaton, dove i Totali si presentavano come la riproduzione di una scatola scenica in cui la macchina da presa rappresentava la quarta parete invisibile, anche in “Cantando sotto la pioggia” la macchina da presa occupa idealmente quello spazio, che potrebbe anche essere identificato con l’occhio dello spettatore della platea, seppure, in maniera quindi opposta al cinema classico, si ritrovi direttamente coinvolta all’interno della narrazione filmica. Questo succede inizialmente perché la regia subisce un repentino cambiamento di forma: da una costruzione per campi e controcampi, in cui viene utilizzato un montaggio invisibile e silenzioso e dove gli attori vengono coinvolti coralmente all’interno del flusso narrativo di una trama si passa, quasi improvvisamente, ad un allontanamento parziale del punto di vista dal soggetto per potere lasciare libero spazio all’espressione del corpo. Scelta importante questa, quanto naturale, che sottolinea quindi quanto importante sia la relazione che deve intercorrere tra azione del corpo e piena restituzione dell’efficacia ritmica di una regia che deve, si essere costruita e ‘cinematografica’, ma che deve anche muoversi e costruirsi con l’attore e intorno ad esso. In questo senso il musical e il comico si assomigliano molto. La mobilità degli attori all’interno del campo, la necessità di piani sequenza di una certa durata che allontanino il senso della falsificazione dell’azione, l’accelerazione della regia in sincronismo con gli eventi da narrare e quindi i gesti dell’attore, portano i due generi ad utilizzare gli stessi sistemi di rappresentazione. La teatralità, che in molte altre pellicole diventa elemento negativo e deprecabile del film, in “Cantando sotto la pioggia”, come era già per Keaton, si ritrova ad essere innanzi tutto giustificata, ma soprattutto inglobata all’interno della costruzione ritmica della regia cinematografica. Sfuggendo, quindi, la mera rappresentazione in totale di un’azione, Kelly e Donen, mantenendo sempre una certa distanza dagli attori, costruiscono e alternano le sequenze di ballo attraverso il linguaggio proprio del cinema. È quindi importantissimo l’utilizzo che viene fatto del fuori campo, del movimento di macchina e degli stacchi delle inquadrature per allargare e inventare costantemente nuove possibilità di sviluppo. Uno spazio visivo costantemente creato paradossalmente e circolarmente da un attore che si muove e da una regia che impone un movimento. Come per il cinema comico anche certi tipi di musical legano indissolubilmente all’interno dei loro film l’azione fisica di attore e regia senza però mai permettere ad uno o all’altra di diventare elemento determinante. Una sintesi perfetta e inscindibile. Esempi fondamentali sono il famosissimo pezzo di “Singin’ in the rain” dove Gene Kelly balla e canta sotto la pioggia e “Make ‘em Laugh” dove O’Connor si esibisce nel momento più acrobatico e fisico di tutto il film per dimostrare che la risata è ciò che trascina il pubblico (e sembra avere anche ragione, per me il pezzo migliore del film). Attraverso questo stile prettamente legato alla restituzioni delle azioni, giocato sulla regia, intervengono quindi anche scelte visive dedicate interamente alla mimica facciale dell’attore, perché anche il viso può essere un campo di azione decisamente importante. Lo rivela il fatto che in questi intermezzi musicati e danzati l’attore invece di rivolgersi alla sua realtà, ‘sfonda’ lo schermo annullando quindi l’artificio della narrazione impersonale guardando direttamente in macchina e rivolgendosi allo spettatore come a sottolineare ulteriormente, assieme alla regia, i momenti più extra diegeticamente caratterizzati di tutto il film. Anche se in verità, proprio per la sua natura multipla e accettata ogni scelta di “Cantando sotto la pioggia” risulta plausibile e soprattutto perfettamente organizzata.

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"C'è una sola cosa che prendo sul serio qui, e cioè l'impegno che ho dato a xxxxxxxx e a cercare di farlo nel miglior modo possibile"

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Dubliner


Reg.: 10 Ott 2002
Messaggi: 4489
Da: sanremo (IM)
Inviato: 03-04-2003 10:48  
Io partecipo con questa:

A PROPOSITO DI SCHMIDT
Il raccondo della vita di Warren Schmidt colpisce duramente e senza addolcire la pillola, ma non colpisce come un diretto in piena faccia, ma bensì come un coltello che lentamente penetra la carne. L'evolversi della crisi personale del personaggio di Jack Nicholson trasmette un'angoscia crescente, direttamente proporzionale al progressivo abbandono a se stesso di Schmidt (incredibilmente reso sullo schermo da un Nicholson meraviglioso), e anche quando si ride, resta l'amaro in bocca. Il regista ci racconta il tutto in modo molto freddo e distaccato. Nell'acquisire la consapevolezza dell'inutilità della sua vita e nell'arrendersi alla vecchiaia che avanza sempre di più, Schmidt cerca di fare almeno una cosa che ritiene valga la pena: mandare a monte il matrimonio della figlia. Ovviamente il progetto non riesce e nella scena del discorso al matrimonio della figlia si riassume tutta la vita di quest'uomo ordinario, che non ha mai avuto il coraggio di osare di più: vorrebbe dire le cose come stanno ma non lo fa. Vorrebbe ma non osa.
E in un film di egoisti (egoista è Warren che non si è mai preoccupato della figlia se non quando si ritrova solo, egoista è la figlia che non vuole trovare il tempo di occuparsi del padre, egoista è la moglie che impone le sue scelte al marito) il barlume di speranza si ha solamente al momento del primo atto di altruismo, che dona un minimo di valore alla vita ordinaria del piccolo mondo di Schmidt. Ma non è certo un happy ending: resta l'amarezza e la consapevolezza di come avrebbe potuto essere la vita di Schmidt. Se solo avesse.....

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ma chi avrà voglia e tempo di leggerle tutte e giudicare?

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Deeproad

Reg.: 08 Lug 2002
Messaggi: 25368
Da: Capocity (CA)
Inviato: 03-04-2003 11:35  
Io partecipo con questa
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Le opinioni espresse da questo utente non riflettono necessariamente la loro immagine allo specchio.

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Dubliner


Reg.: 10 Ott 2002
Messaggi: 4489
Da: sanremo (IM)
Inviato: 03-04-2003 11:41  
quote:
In data 2003-04-03 11:35, Deeproad scrive:
Io partecipo con questa




ottima recinzione!

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Superzebe

Reg.: 25 Mag 2002
Messaggi: 3172
Da: Genova (GE)
Inviato: 03-04-2003 11:51  
quote:
In data 2003-04-03 01:40, Daniel scrive:
quote:
In data 2003-04-03 00:30, Superzebe scrive:
"la corazzata kotionkin è una cagata pazzesca"

ecco è la mia.



guarda che in quella battuta Villaggio non storpiava il nome



si che lo storpiava.
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Take off your shoes, hang up your wings
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Drain in the last from a jug...

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DemonSeth
ex "Phibes"

Reg.: 27 Feb 2002
Messaggi: 2048
Da: Catania (CT)
Inviato: 03-04-2003 15:24  
Io non partecipo...perchè non scrivo recensioni...Mattia, un giorno dovrai darmi lezioni di critica cinematografica.
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"Capable du meilleur comme du pire, mais pour le pire je suis le meilleur"

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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 03-04-2003 16:13  
ma che mi dici mai demon?
io devo ancora imparare, scrivo totalmente a caso.
e mi sa che è troppo tardi...

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NancyKid
ex "CarbonKid"

Reg.: 04 Feb 2003
Messaggi: 6860
Da: PR (PR)
Inviato: 03-04-2003 17:28  
dai partecipo anch'io con la mia ultimissima e breve recensione, DAREDEVIL:

Film campione d'incassi negli USA, Daredevil è liberamente tratto dal Marvel Comic omonimo di Stan Lee (stesso papà di Spiderman o de I Fantastici 4)
Matt Murdock (Affleck) ha una doppia vita: di giorno è un affermato avvocato, di notte si trasforma nel Diavolo Rosso, giustiziere e difensore della città.
Sviluppò i suoi poteri da bambino, quando ebbe un'incidente che gli costò la vista ma in cambio i suoi altri sensi si supersvilupparono, fino a donargli un intuito radar infallibile.

In campo ci sono i tecnici più imponenti: maghi degli effetti speciali, i coreografi più famosi dei film azioni di Hongkong, costumisti all'avanguardia... insomma si è confezionato un film pronto ad assalire le prime posizioni del box-office.
E i risultati si sono visti, milioni e milioni di dollari d'incasso; ma no, io non ci casco in questo tranello commerciale.
Mi dispiace Mr. Mark Steven Johnson, ma io non mi accontento degli effetti speciali incandescenti.
No mr.Johnson, io non mi accontento di vedere per l'ennesima volta combattimenti a la "Matrix".
No mr.Johnson, io non sono venuto al cinema per vedere i muscoli di Ben Affleck o le curve di Jennifer Garner.
Ma non pretendo poi molto.
Mi sarei accontentato di vedere un po di arte che è il cinema, un po d'innovamento... o un minimo di bravura nella recitazione (Ben Affleck è totalmente incapace di emozionare, vale sì anche per la sprecatissima Garner)... o magari un briciolo d'intelligenza nella sceneggiatura... anzi, magari tutto questo è pretendere troppo,allora mi accontenterei anche di vedere un senso nella storia (perchè diavolo Daredevil, al posto del letto, deve dormire in una cassa da morto ripiena d'acqua???)
Misteri della fede....
Per favore, ridateci Batman e Superman.

VOTO: 4

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eh?

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Daniel


Reg.: 14 Feb 2003
Messaggi: 4301
Da: Nuoro (NU)
Inviato: 03-04-2003 17:40  
Un film che consiglio a tutti quelli che hanno problemi di stitichezza acuta ...

Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino

Titolo : Ricordati, siamo sempre noi!

Un vano presentimento coglie lo spettatore già nei primi venti minuti di film, ovvero la sensazione palpabile di dèja -vu, del già visto, del già sentito. Sarà per il fatto che i due protagonisti hanno gli stessi nomi (e idiomi), Carlo e Giulia dei personaggi del film precedente (quel tanto decantato Ultimo bacio) e il cognome, Ristuccia (lo stesso della famiglia rappresentata in quell’opera che ha fatto conoscere Muccino al grande pubblico, Come te nessuno mai). O meglio sarà forse per situazioni paradossali (come lunghe corse, urla, schiaffi e ansie) che caratterizzano questo autore e i suoi lavori. Sarà per questo ammasso di luoghi comuni che il film già dalle prime scene non decolla e non dà propositi positivi per un eventuale ‘decollo’.
La trama appunto è abbastanza nota. Una voce narrante (molto stile Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet) ci presenta i quattro personaggi gettando già un ombra sulla loro esistenza : Carlo (Fabrizo Bentivoglio) assicuratore e marito insoddisfatto è sposato con Elena (Laura Morante) insegnante di liceo, entrambi con ambizioni artistiche assopite dal tram tram familiare, uno voleva diventare un affermato scrittore l’altra realizzarsi come attrice, e dai figli con le classiche crisi postadolescenziali : Paolo (Silvio Muccino) inquieto diciannovenne che ostenta continua insicurezza e Valentina (la debuttante Nicoletta Romanoff) ambiziosa diciasettenne con lo scopo di diventare celebre, di essere qualcuno a costo di qualunque cosa.
Su carta sembra promettere bene, senonché il ‘genio’ di Muccino scivola immancabilmente nello stereotipo, nei luoghi comuni più banali rubati dal mucchio di schematici ritratti generazionali (dopo i trentenni immaturi dell’opera precedente, i quarantacinquenni irrisolti e gli adolescenti inquieti) per rappresentare l’Italia medio borghese (pariolina) del nuovo millennio. L’errore fondamentale in se non sta nell’uso dello stereotipo (quanto mai stra abusato nel cinema contemporaneo) ma della messa in scena dello stesso. Un uso vorticoso della macchina da presa e inquadrature tagliate incomprensibilmente, che per molti possono sembrare dei virtuosismi da ambizioni ‘artistiche’, in realtà rendono il complesso un accozzaglia ridicola, pretenziosa e fittizia. Si ha sempre la sensazione di assistere a qualcosa di assolutamente inverosimile e spiace dirlo a volte veramente idiota.
E se alcune scelte stilistiche (come l’ossessione continua dello specchio, del riflesso, del voler essere sempre altro, di assomigliare sempre più al giudizio della massa dipinta come unica vera dispensatrice di critiche mai opinabili) sono realizzate con un certo effetto, rischiano però di annegare nel patetico (le continue urla, pianti disperati, corse sfrenate e la demolizione di tutta la telefonia mobile presente) e nel luogo comune più assoluto (il deus ex - machina rappresentato dall’incidente di Carlo che rompe la vicenda per allietarla, ma solo in apparenza; Valentina che costruisce la fragilità attorno al trucco e si fa chiunque per diventare celebre; Giulia che si innamora non ricambiata del regista teatrale irrimediabilmente omosessuale; Paolo che sbiacica contro tutti di voler essere migliore e perde le sue ore in masturbazioni e cocenti delusioni amorose tipicamente adolescenziali).
Troppe situazioni irrisolte, troppe accuse buttate e non spiegate. Non si può gettare il sasso e poi nascondere la mano, troppo comodo caro Muccino. E’ bello fare una pseudo-critica sociale che dir si voglia senza esplicare le cause di questa degenerazione di valori o senza apportare un benché minimo archetipo di risoluzione. Con il personaggio di Alessia (Monica Bellucci) si avvicina sottilmente a questa ‘risposta’, creando una sorta di ‘martire’, di emblema morale che conscio di quello che gli accade attorno porta nelle spalle il fardello delle responsabilità. Ma ciò non basta e non può bastare.
Il gruppo di attori sono relegati a una messa in scena opressiva ed egoista che non dà spazio alle loro doti. Così il bravissimo Bentivoglio, viene ridicolizzato e costretto a muoversi con fare catatonico per tutto il film; l’algida Romanoff mostra il suo corpo nella sua fisicità più possente ma limita la sua Valentina a questo; la scarsa prestanza di Muccino jr. ben si adatta al ruolo che però viene in seguito martirizzato dalla sua inaudita inespressività; la Bellucci ingrassata un paio di chili e struccata per l’evento dimostra migliorie ma lo spessore del personaggio e della trama non le danno modo di mettersi realmente in gioco; e la Morante, unico barlume di luce, sfoggia la sua bravura (andando tuttavia alcune volte sopra le righe) donando a Giulia la grinta, la passione e la fragilità di una donna quarantenne non nevrotica ma stanca, solo flebilmente lucida. E da ciò ne conviene il non sentimento del regista (né di odio e né di amore) verso i suoi personaggi, a cui fa rivestire un ruolo di fantoccio, di manichino, di burattino inanimato senza motivazione alcuna e a cui guarda con oggettivo e gelido distacco, dando a loro lo stesso suo sguardo. In questo gruppo di famiglia in un interno dove i personaggi ansimano, sudano, e si dimenano intrappolati nel loro grigiore quotidiano, nelle loro scene di ordinarie crisi isteriche, di prese di posizione si insinua un tema piuttosto pesante e complesso come l’incomunicabilità.
Tema forte che quanto mai spazia e ha spaziato nella storia del Cinema, e se noi dovessimo immaginarla porteremo i nostri ricordi a celebri esempi di bergmaniana memoria, silenzi laceranti, sguardi più taglienti delle parole, l’ossessione per le forme. Ma Muccino decide di regalarci (termine quanto mai inappropriato) le urla ormai abbastanza detestabili e al limite della raucedine, gli attacchi d’asma incomprensibili e innumerevoli lotte di ogni tipo, trattando lo spettatore con mediocrità e offendendo la sua intelligenza con l’utilizzo di musiche da fiction e canzoni di rimando agli anni 70. Unica scelta aprezzabile nel contesto è la re-interpretazione di Elisa de ‘Almeno tu nell’universo’ (che fu della compianta Mia Martini) le cui note mettono squisitamente fine a un prodotto di solo intrattenimento e vuoto a tal punto da pensare di aver appena assistito a una trasposizione di semplice aria che non lascia qualcosa e né ferisce, non appaga e né fa arrabbiare, insomma totalmente inutile a livello riflessivo.
Se nell’opera precedente l’autore aveva dato prova di abilità (furbescamente gestita) registica, qui mostra le carte in tavola facendo crollare una pseudo torre di Babele che si era costruito, mostrando una totale incapacità di rinnovo, discutibili scelte stilistiche e un auto compiacimento assurdo quanto odioso. Un’altra chimera del nostro Cinema.


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keroppi

Reg.: 10 Mar 2003
Messaggi: 267
Da: cuneo (CN)
Inviato: 03-04-2003 17:50  
wow nn credevo ci fossero così tanti bravi recensori qui.... complimenti a tutti
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IOMA 2004.
La KEROPPI MAJOR si congratula con SOFIA COPPOLA e il suo bellissimo film LOST IN TRANSLATION per il grandissimo successo di critica che sta avendo in tutto il mondo.
5 NOMINATIONS AI GOLDEN GLOBES
4 NOMINATIONS AGLI OSCAR

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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 03-04-2003 18:28  
Direi che Daniel ha spaccato di brutto... per me è la migliore. e come non potrebbe?
Senti Daniel mi fai un piacere? puoi cercare di spedire la tua analisi alla casa di produzione del fil nonchè al suo geniale regista?

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"C'è una sola cosa che prendo sul serio qui, e cioè l'impegno che ho dato a xxxxxxxx e a cercare di farlo nel miglior modo possibile"

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Daniel


Reg.: 14 Feb 2003
Messaggi: 4301
Da: Nuoro (NU)
Inviato: 03-04-2003 18:33  
quote:
In data 2003-04-03 18:28, Tristam scrive:
Direi che Daniel ha spaccato di brutto... per me è la migliore. e come non potrebbe?
Senti Daniel mi fai un piacere? puoi cercare di spedire la tua analisi alla casa di produzione del fil nonchè al suo geniale regista?





bhe pensavo che un affogato al caffè e cianuro sarebbe stato più adatto ... ma che ci sia pure Muccino jr. così prendo 2 piccioni con una fava ...

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Dubliner


Reg.: 10 Ott 2002
Messaggi: 4489
Da: sanremo (IM)
Inviato: 03-04-2003 19:01  
Anch'io voto Daniel, decisamente quella che mi piace di più.

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malebolgia

Reg.: 15 Gen 2003
Messaggi: 2665
Da: matelica (MC)
Inviato: 03-04-2003 19:05  
joel quelle 4 righe che ho scritto sono passate a pag. 2 di questa sezione....
il thread è quello con il titolo "brother"....
anche se proprio recenzzzione non è, fa lo stesso (schifo)...

bye
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... e per un istante ritorna la voglia di vivere a un'altra velocità

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