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Autore Casi di malagiustiza italiana
ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 10-11-2004 15:13  
Gaetano Badalamenti era certamente un mafioso. Lo era a tal punto da avere sempre negato l'esistenza stessa della mafia. Fu arrestato in Spagna, nel 1984, ed estradato negli Stati Uniti, che lo ricercavano per commercio di droga. Qui è stato subito processato e condannato. Nel 1985, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino posero sotto sequestro i suoi beni. Nell'aprile di quest'anno Don Tano è passato all'altro mondo. Ed ora si scopre che quel procedimento di sequestro (così come il processo per i crimini commessi), in diciannove anni, se ne è stato fermo e non è mai divenuto un provvedimento di pignoramento, talché l'avvocato degli eredi, che fu anche quello del mafioso, ne chiede la restituzione. Diciannove anni non sono bastati, neanche per una sentenza di primo grado. Com'è ovvio l'imputato ha frapposto mille ostacoli al corso della giustizia, primo fra tutti il non accettare di essere presente in aula. Ma, a parte il fatto che i processi vanno avanti anche quando l'imputato è detenuto altrove, Don Tano accettò di testimoniare al processo per l'omicidio Pecorella, ove avrebbe voluto smentire la tesi accusatoria sostenuta da Buscetta.

Quella testimonianza non ci fu. Chi, e perché, si è opposto alla venuta in Italia di Badalamenti? E non sarebbe stata una buona occasione anche per mandare avanti il pignoramento? Colpire i mafiosi nel patrimonio è come colpirli al cuore. Perché si è voluto risparmiare Don Tano?
Intendiamoci, chiunque ha diritto ad utilizzare tutti i leciti strumenti della difesa, e se scrivo che Badalamenti era mafioso non lo faccio per ipotecare una condanna che la giustizia italiana non è riuscita ad emettere, né emetterà mai più, ma, in un certo senso, per rispetto alla memoria del defunto. Tutti hanno diritto di difendersi, senza eccezioni di mafiosi, terroristi o pedofili, ma diciannove anni per non essere capaci di eseguire un pignoramento non sono i tempi lunghi indotti dalla difesa, è la bancarotta della giustizia.

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La sinistra: 2 persone 3 opinioni!
(rubata da Law & Order; non certo mia)

[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 10-11-2004 alle 15:18 ]

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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
Messaggi: 10143
Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 10-11-2004 15:15  
Uccise suor Mainetti, ora lavora in asilo
Chiavenna, una delle tre omicide “per Satana” fa la baby-sitter a Roma
- Farebbe la “tata” in un asilo, nell’ambito di un programma di reinserimento sociale a Roma Veronica P., una delle tre ragazze che il 6 giugno del 2000 massacrò Suor Maria Laura Mainetti “in nome di Satana” nel Parco delle Marmitte Giganti di Chiavenna. La notizia arriva da un giornale locale di Sondrio ed è senza dubbio destinata a far discutere.
Veronica - si legge sul quotidiano - scarcerata quattro anni dopo aver preso parte all’omicidio di suor Maria Laura, sta seguendo un programma di reinserimento sociale in una comunità di Roma che prevede diverse ore di servizio in una scuola materna. Non si tratterebbe, a quanto si apprende, di vere e proprie attività didattiche, ma comunque di azioni a contatto con dei bambini. Un particolare inquietante, soprattutto alla luce del fatto che, come emerge dagli interrogatori, proprio Veronica, che ora ha 21 anni, aveva proposto di sacrificare a Satana un bambino prima che la scelta cadesse su una religiosa.
«È come se le avessero diminuito ulteriormente la pena. Anche se quello che conta, in fondo, è che Veronica adesso faccia del bene», ha spiegato amareggiato Amedeo Mainetti, fratello di suor Maria Laura, commentando la notizia.
«Sono stato e sono tuttora contrario alla scarcerazione della ragazza», ha aggiunto, spiegando che per lui problema è un altro: «Bisogna capire se c'è del vero pentimento. Non sta a me giudicare, nessuno può essere in grado di leggere nelle coscienze». «Mi sta bene che siano recuperate, ma non è questa la maniera». «Anziché farle fare la baby sitter - dice il fratello della suora uccisa - bisognerebbe mandarla in un luogo dove si possa rendere conto della sofferenza, in un istituto per handiccapati per esempio. A contatto con il dolore e la sofferenza perché impari il rispetto e la dignità, servendo i sofferenti. Oppure a fare lavori umili anziché avere un posto di lusso, io sono nonno - dice con voce commossa Amedeo Mainetti - è molto bello fare i baby sitter. Sono stato il primo a perdonare e questa è la legge. Io non so se si è pentita, lo dica pubblicamente se è davvero pentita. Ripeto io sono stato il primo a perdonare cristianamente, devono essere perdonate altrimenti il sacrificio di suor Maria Laura sarebbe stato inutile, ma non così...».
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Spock: We must acknowledge once and for all that the purpose of diplomacy is to prolong a crisis.

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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 10-11-2004 15:16  
Lei pregava mentre l’accoltellavano
- «Signore perdonale». Sono passati 4 anni e 5 mesi da quando suor Maria Mainetti, l’angelo della Val Chiavenna, in ginocchio pregava e perdonava le sue assassine.
Tre ragazzine, il 6 giugno del 2000, attirarono la donna in un vicoletto di Chiavenna per poi alzare 19 volte una lama contro di lei. Una di loro per far uscire la suora dal convento le telefonò e le disse che aveva un problema grave; di aver subìto una violenza e di aspettare un bambino.
Il cadavere straziato di Teresina Mainetti, suor Maria Laura, 61 anni, un passato da maestra e un presente di benefattrice, venne trovato il giorno dopo, 7 giugno 2000, in via Poiatengo.
Le indagini dei carabinieri a tutto campo portarono, il 29 giugno, a fermare tre 17enni: Veronica, Milena e Ambra. Un «gioco fra noi» lo definirono. Il 2 agosto gli inquirenti fecero riesumare la salma della suora per trovare riscontri oggettivi alle rivelazioni delle tre assassine. Il delitto di una anima pia, di una donna buona, di una suora doveva essere una sorta di regalo a Satana. Il 25 ottobre la seconda autopsia confermò che la religiosa era morta pregando, in ginocchio. Tre settimane dopo: il 19 dicembre il pm del Tribunale dei minorenni, Cristina Rota, depositò gli atti per la richiesta di rinvio a giudizio per omicidio volontario. Il 5 febbraio 2001 il primo gradino giudiziario del procedimento: le tre ragazze comparirono davanti al giudice Anna Poli. Chiuse in carcere, sottoposte a perizia psichiatrica, scrivevano lettere di pentimento a un sacerdote. Considerata la situazione si decise che Ambra, Milena e Veronica venissero giudicate con il rito abbreviato.
Il 14 febbraio 2001 il giudice assegnò l’incarico per un’altra perizia psichiatrica. Il 6 giugno 2001, un anno dopo il martirio di suor Maria, il vescovo di Como monsignor Maggiolini annunciò che sarebbe stata avviata la causa di beatificazione di suor Maria Laura. Il 19 giugno arrivarono gli esiti dell’esame psichiatrico: i periti definirono le personalità delle tre minorenni “border line” e soprattutto “incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del fatto”, sicuramente “socialmente pericolose”. Il 9 agosto 2001 il giudice decise che Ambra non poteva essere giudicata perché per totale incapacità di intendere e volere e per questo destinata a 3 anni in riformatorio giudiziario; Veronica fu condannata a 8 anni e mezzo di reclusione, Milena a 20 giorni di più. Il 4 aprile del 2002 la condanna d’Appello: tutte colpevoli. Per Veronica e Milena i giudici confermano la condanna di primo grado, per Ambra la pena è anche maggiore: 12 anni e 4 mesi di reclusione.
Alla lettura della sentenza le tre ragazze erano apparse quasi indifferenti. A pochi mesi dalla sentenza di secondo grado scoppia il primo caso: Ambra viene scarcerata il 18 gennaio del 2003 per decorrenza dei termini, ma 5 giorni dopo la Cassazione la riporta in prigione. Il 9 luglio scorso Veronica, che aveva attirato in trappola la suora con la sua telefonata, ottiene dal magistrato di Sorveglianza di Roma l’ammissione in una comunità, dove può dipingere, realizzare ceramiche e infine, anche occuparsi di bambini come baby sitter.
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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
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Da: Roma (RM)
Inviato: 10-11-2004 15:20  
Postate pure qui i cais di cattivo funzionamento della giustiza(ho cambiato il tiotlo per questo, ipergiorg )
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Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è

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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 10-11-2004 15:48  
L'hanno nascosta la notizia, rimpiattata nelle pagine interne, con titoli che non si capiscono. Fa eccezione il Giornale, che la mette in prima. Eppure è grossa: la Corte di Cassazione giunge alla conclusione del processo per l'attentato dell¹Addaura, tentato nel 1989, e che poteva costare la vita a Giovanni Falcone e stabilisce che: a. l'attentato era vero, e non una montatura della vittima o dei servizi segreti, tant¹è che ne condanna gli autori; b. che lo si utilizzò per denigrare Falcone, per isolarlo, facendolo oggetto di "torbidi giochi di potere tendenti ad impedire che egli assumesse prestigiosi incarichi". Quali? Non fu nominato consigliere istruttore, non fu eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura, non fu nominato alto commissario antimafia. Chi i nemici? La Cassazione indica, esplicitamente, Domenico Sica, che ebbe il posto che sarebbe spettato a Falcone, la "toga rossa" (autodefinizione) Francesco Misiani, e Mario Mori.

Ma noi abbiamo buona memoria: ad impedire la sua carriera in magistratura fu un voto del Csm, ove determinante risultò la contrarietà di magistratura democratica e del suo più importante rappresentante: Elena Paciotti. Poi la dottoressa divenne presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, da dove, con forza, difese la totale indipendenza dei magistrati dalla politica. La mattina dopo fu eletta parlamentare europea nelle liste del fu partito comunista italiano.

A combattere contro l'ipotesi che Falcone si occupasse di antimafia fu Luciano Violante, che allora gli preferiva Agostino Cordova. Poi, dopo la strage di Capaci, tutti a dire che era il migliore, il più bravo, il più competente.

La sinistra giudiziaria sostenne a gran voce che la mafia ammazza gli isolati, e questa era la ragione per la quale si doveva sempre stare dalla parte degli inquisitori. La tesi non mi ha mai convinto, ma, in ogni caso, è esattamente quel che loro fecero a Giovanni Falcone. Nel cui nome, per anni, Palermo è stata solcata da cortei commemorativi, guidati da quanti fecero di tutto per impedirgli di lavorare.

Tutti in piedi, quindi, per ricordare un uomo giusto, probo, dedito al dovere. E che per quello morì, dopo essere stato pugnalato alle spalle.
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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 10-11-2004 15:49  
Si ha un bell'indignarsi per gli arresti domiciliari in vista per Giovanni Brusca, il difetto sta nel manico. E questo continuano a impugnarlo i soliti noti della magistratura collusa con i 'pentiti' eccellenti. E' tutto un baciarsi le mani tra i professionisti dell'antimafia e gli specialisti dell'ammazzatina, visto che la legge sui collaboratori di giustizia non avvantaggia i pesci piccoli, che poco o nulla hanno da rivelare, bensì coloro che più sanno perché più sono coinvolti nelle decisioni dei vertici mafiosi. E da ciò discende la loro sostanziale impunità, una volta che abbiano optato per vuotare il sacco, magari con la benedizione delle cosche vincenti. E così si perpetua il fenomeno della mafia, con il riconoscimento sul piano istituzionale di personaggi che, avendo esaurito la funzione di killer in quanto 'bruciati' dalla cattura, proseguono in altro modo la loro carriera, utilizzando le risorse dello stato spesso a vantaggio dei capi emergenti.

Oltre ad essere immorale, la normativa sul pentitismo alimenta un grandissimo equivoco: che sia possibile sconfiggere un'organizzazione malavitosa ramificata per il tramite di individui permeati di cultura mafiosa. Sciascia, Falcone e Borsellino lo avevano compreso: il primo si era trasformato in profeta della lotta a siffatto sistema di 'do ut des', gli altri due furono uccisi per non avere dato credito a certi metodi adottati da giudici carrieristi e ignoranti (nel senso di sprovvisti di cultura giuridica garantista e incapaci di un vero metodo investigativo), degni compari dei propugnatori del manipulitismo nordista. Non è un caso, forse, che gli effetti di questa ideologia nefasta si siano dispiegati in concomitanza con l'eliminazione fisica dei due magistrati in terra di Sicilia. Non è un caso che la mostruosità giuridica del 'concorso esterno' si sia affermata in quegli stessi anni che vedevano il trionfo nelle aule giudiziarie e nei corridoi dei tribunali di quella mentalità giacobina alla Fouché sottesa all'immane repulisti di marca (d)ambrosiana scatenato per seppellire un'intera classe politica.

I figli togati del Sessantotto costituivano ormai la maggioranza della piemmeria attiva: gattopardescamente, i pronipoti dei picciotti alleati di Garibaldi nell'assestare la botta decisiva al regime borbonico entravano in gioco a fianco dei rampolli della borghesia progressista per conservare il potere della mafia. Quale migliore occasione che approfittare delle sinecure elargite ai cosiddetti 'collaboratori di giustizia'? I processi Contrada e Andreotti sarebbero stati i più clamorosi esempi di tale saldatura fra una corporazione nutrita di miti palingenetici e la 'crema' al soldo dei 'pezzi da novanta'. Per inciso, ricordiamo che lo stesso Brusca, appena reduce dall'arresto, 'scivolò' sul caso del Divo Giulio, rischiando di compromettere la paziente tessitura di tale inganno con la denunzia, subito abortita, del complotto ai danni dell'esponente democristiano. Essendosi prontamente emendato, oggi Brusca può godere, fra lo scandalo dei benpensanti dimentichi di quel suo infortunio, il premio promessogli. E l'acido in cui sciolse il corpo di quel povero figlio di un mafioso meno importante è il medesimo che serve adesso a corrodere la fiducia degli onesti nella giustizia.
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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 16-11-2004 14:43  
Ecco a cosa porta l'uso distorto dei pentiti: anni di persecuzione giudiziaria ai danni del braccio destro di Borsellino

Assolto dalle accuse di mafia Carmelo Canale, era il braccio destro di Borsellino
Era l'ombra di Paolo Borsellino. Il maresciallo Carmelo Canale era il suo angelo custode, l'uomo più fidato del giudice ucciso a Palermo il 19 luglio 1992, che proprio in questi giorni con il film record di ascolti su Canale5 è tornato ad essere, anche tra i più giovani, una figura popolare e commovente. Quando Borsellino era capo della procura di Marsala, cioè fino ai suoi ultimi giorni di vita, il maresciallo Canale aveva il compito di svolgere le indagini più delicate, di tenere i contatti con i pentiti di mafia, di custodire i segreti del giudice. Ma pochi anni dopo la strage di via D'Amelio su Canale, nel frattempo promosso tenente e in servizio al Ros dei carabinieri, precipitò la mannaia dell'accusa più infamante, quella di essere stato un servitore infedele dello Stato, un uomo in divisa al servizio delle cosche. Adesso, i giudici di Palermo, dopo un processo durato cinque anni, hanno assolto Carmelo Canale dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste. La pubblica accusa aveva chiesto una condanna a dieci anni di carcere: contro di lui c'erano le dichiarazioni di una trentina di testimoni, tra cui undici collaboratori di giustizia. Il tenente era accusato di avere preso soldi e accettato regali in cambio di notizie riservate passate agli uomini di Cosa Nostra palermitani e trapanesi. Numerosi gli episodi contestati, anche quello di avere fatto da scorta ad alcuni camion carichi di acqua e zucchero che venivano usati per preparare vino adulterato. Canale, nonostante le accuse pesantissime, non fu arrestato, ma incriminato a piede libero. I giudici non hanno creduto a quelle accuse. Adesso, la sentenza di primo grado lo dichiara innocente.

Oggi sentivo che lòa vedova Borsellino all'inizio del processo ha dichiarato "E' come se avessero ucciso mio marito una seconda volta"
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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
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Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 17-11-2004 11:41  
Commentando l’assoluzione di Carmelo Canale, il tenente dei carabinieri accusato d’essere colui che avrebbe tradito Paolo Borsellino, il Tg3 di oggi fa una ricostruzione sommaria dei fatti di quegli anni e delle vicende degli anni successivi. Parlando del comandante della caserma dei carabinieri di Terrasini, ecco cosa si dice: «Antonino Lombardo si uccise dopo avere appreso che un pentito lo accusava di collusione con la mafia». Nessun cenno alla vicenda completa. Ovviamente non è pensabile in un servizio di telegiornale raccontare tutta la storia per filo e per segno, ma se si decide di accennare a una vicenda, allora sarebbe opportuno non omettere i particolari più rilevanti. Anche perché, detta così la notizia, sembra che poi Lombardo fosse davvero colluso con la mafia, cosa non vera.Benché i procedimenti intentati dalla vedova di Lombardo siano stati archiviati, sarebbe opportuno ricordare che il maresciallo si tolse la vita il 5 marzo 1995, dieci giorni dopo essere stato platealmente accusato di collusione con la mafia da Leoluca Orlando in diretta televisiva a Tempo reale, la trasmissione di Michele Santoro Martire.

Lombardo era colui che aveva interrogato, negli Usa, Gaetano Badalamenti, che Tommaso Buscetta aveva indicato come colui che gli aveva passato le informazioni contro Giulio Andreotti, acerrimo nemico di Leoluca Orlando (e il cerchio si chiude). A Lombardo, Badalamenti aveva smentito la versione di Buscetta, smontando così l’impianto accusatorio contro Andreotti. Il maresciallo fu perciò accusato di collusione con la mafia. Oggi, pur tenendo presente che la magistratura ha ritenuto Orlando non responsabile del suicidio del maresciallo (e di questo non si può che prendere atto, così come prendiamo atto che la stessa magistratura, invece di combattere la mafia, ha intentato un colossale processo contro Andreotti), non possiamo cancellare quella vergognosa pagina della storia della televisione italiana.
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ipergiorg

Reg.: 08 Giu 2004
Messaggi: 10143
Da: CARBONERA (TV)
Inviato: 20-11-2004 14:50  
MAFIA:I PENTITI VOLEVANO ELIMINARE CANALE

di Lino Jannuzzi - Il capitano Sergio De Caprio, il leggendario «capitano Ultimo» che aveva catturato il capo di Cosa Nostra Totò Riina, era sceso a portare il suo cane a passeggio nel cortile della caserma, inciampò nel cadavere, ma non riconobbe il maresciallo che si era sparato con la pistola di ordinanza alla tempia e aveva tutto il volto coperto di sangue, e fece prima il cane a capire chi era. Eppure era stato proprio il maresciallo Antonino Lombardo a portarlo sulle tracce di Riina, e non Balduccio Di Maggio, il «testimone oculare» del bacio tra Andreotti e il capo della mafia, come si era fatto credere per accreditare le sue fregnacce. Di Maggio era scappato da Palermo per non finire ammazzato da Giovanni Brusca e mancava da due anni e non aveva la più pallida idea di dove potesse essere il covo di Riina. Invece Lombardo aveva diretto per vent'anni la stazione dei carabinieri di Terrasini, il feudo mafioso di Gaetano Badalamenti, e per vent'anni aveva lavorato alla maniera antica, di quando non c'erano i «pentiti» da comprare a tanto al chilo coi soldi dello Stato e la libertà, e bisognava indagare e pedinare e intercettare e trafficare con i «confidenti», rischiando, oltre la vita, la reputazione.

Era stato il maresciallo a dire al capitano di pedinare i Ganci, ché erano loro gli ufficiali di collegamento tra Riina e le cosche, e seguendoli «Ultimo» era arrivato al «covo», aveva piazzato il furgoncino con la telecamera, aveva filmato la moglie di Riina che usciva per fare la spesa, e poi l'auto guidata dal Biondino, e l'aveva bloccata, e aveva spalancata la portiera, e aveva tirato fuori a forza zu Totò e l'aveva scaraventato a terra, sul selciato, e l'aveva avvolto e stretto e accecato con la coperta, e l'aveva catturato.

Era per questo, per la sua memoria storica e le sue conoscenze e i suoi confidenti e i suoi rapporti a Terrasini con gli amici e i parenti di Badalamenti, che avevano scelto Lombardo per mandarlo a parlare con il boss ristretto in un carcere del New Jersey a scontare una condanna a 25 anni per traffico di stupefacenti.

C'era il processo a Giulio Andreotti, e il principale accusatore dell'ex presidente del Consiglio, Tommaso Buscetta, che nulla sapeva di suo, aveva dichiarato che tutto aveva appreso da Badalamenti: e Badalamenti sarebbe stato disposto e venire in Italia e a testimoniare al processo e magari a confermare le accuse di Buscetta? La prima volta Lombardo entrò da solo nella cella a parlare con il boss e fu subito accolto a braccia aperte: perché era un carabiniere (e Badalamenti soleva dire: «I poliziotti sono sbirri, i carabinieri sono carabinieri») e perché era Lombardo, il maresciallo di Terrasini.

Parlarono da soli per venti minuti, poi Lombardo fece entrare il suo superiore, il maggiore Mario Obinu, che uscì dalla cella dopo tre ore, e carico di meraviglia: «Gaetano Badalamenti - scrisse il maggiore nel rapporto per il comando dell'Arma - ha assunto per la prima volta la veste di mafioso e ha accettato di parlare straordinariamente di mafia, accettando di essere considerato un capo mafia e proponendosi come tale... Ha detto subito che di Buscetta disprezza il comportamento umano e processuale, perché ha la tendenza a farsi manovrare dai giudici ed è disponibile a qualsiasi compromesso... Ha negato di aver mai parlato con Buscetta dell'omicidio di Mino Pecorelli e tanto meno di essere mai stato richiesto da Andreotti o da Lima o dai cugini Salvo di quell'omicidio, e di non credere che possa essere stato un omicidio di mafia e di killer siciliani... Si è dichiarato disposto a venire in Italia a deporre al processo e ad avere un confronto con Buscetta per smentirlo...».

La seconda volta il maresciallo Lombardo e il maggiore Obinu tornano nel carcere del New Jersey a parlare con Badalamenti assieme a due magistrati, il pm Gioacchino Natoli, che gestisce l'accusa contro Andreotti a Palermo, e il pm Fausto Cardella, che accusa Andreotti a Perugia nel processo per l'assassinio di Pecorelli.

Badalamenti conferma dinanzi ai due magistrati punto per punto ciò che aveva detto a Lombardo e a Obinu e ripete di essere disposto a venire in Italia a confrontarsi al processo con Buscetta. Ma il maggiore Obinu aggiunge un post scriptum al suo rapporto per il comando dell'Arma: «Dopo il colloquio con Badalamenti, quando ci siamo riuniti al ristorante, il sostituto procuratore Gioacchino Natoli ha chiaramente dimostrato seria preoccupazione per l'atteggiamento di Badalamenti, pericoloso per l'impianto processuale, che è poggiato sulle dichiarazioni di Buscetta, e ci ha esortato a non insistere».

Il rapporto del maggiore Obinu tuttavia sarà conosciuto ufficialmente soltanto quattro anni dopo, quando il maggiore verrà chiamato a deporre a Perugia al processo Pecorelli e lo consegnerà personalmente al presidente del tribunale. Non solo: la copia che il maggiore consegna al tribunale è priva del post scriptum, e bisognerà attendere ancora tre anni per conoscere il testo integrale, quando la vedova e i figli del maresciallo Lombardo lo tireranno fuori dalle carte del padre per querelare coloro che lo hanno ingiustamente diffamato e «istigato al suicidio».

Intanto, il comando dei carabinieri decide di inviare ugualmente, e per la terza volta, Lombardo negli Stati Uniti, e questa volta per prelevare Badalamenti e portarlo in Italia. Lombardo prepara le carte, preleva dalla cassa della caserma i soldi per i biglietti dell'aereo per sé e per il boss, e va a casa a fare la valigia. E proprio quella sera, e mancano due giorni alla partenza, accende la televisione e assiste alla trasmissione di Michele Santoro sulla mafia.

Ospite principale della trasmissione è l'ex sindaco di Palermo e leader del movimento politico della Rete Leoluca Orlando che, a un certo punto, si alza dalla sedia, guarda fisso in macchina, ed esclama: «La mafia in Sicilia ha il volto delle Istituzioni... il maresciallo dei carabinieri di Terrasini è connivente con la mafia... ».

Succedono, nell'ordine, le seguenti cose. Il comandante generale dell'Arma Luigi Federici telefona alla Rai e chiede inutilmente di intervenire in diretta alla trasmissione, emette un comunicato indignato in cui respinge decisamente le accuse a Lombardo; ma intanto, per il clamore suscitato e per ragioni di prudenza, sospendono la missione di Lombardo negli Stati Uniti (Badalamenti non verrà mai più a deporre in Italia); il maresciallo querela Orlando, Santoro e la Rai;
la mafia uccide uno dei confidenti del maresciallo, lo incaprettano e ne trascinano il cadavere davanti alla porta della sua abitazione; nasce e si diffonde la storiella che il maresciallo e la sua famiglia erano soliti cucinare sulla terrazza il capretto, un capretto vero, che poi mangiavano assieme agli abitanti della casa di fronte, che erano familiari del boss Badalamenti; dalla casa di Lombardo sparisce il cane lupo, un segnale, il cane rappresenta la famiglia, il suo sequestro segna l'avvicinamento alla casa, il segnale del pericolo che incombe sui figli e sulla moglie del maresciallo (ma non lo uccideranno, il cane sarà liberato e tornerà a casa dopo il suicidio del maresciallo); il capitano diretto superiore di Lombardo a Palermo si reca in procura a sollecitare un comunicato di smentita e di solidarietà con il maresciallo (sono passati tre giorni dalla trasmissione televisiva e la procura si è chiusa in un minaccioso silenzio);
in procura gli dicono che non hanno nessuna intenzione di difendere il maresciallo e che, anzi, stanno valutando se non è il caso di annunziare e aprire un'inchiesta; il capitano torna in caserma e avverte Lombardo; Lombardo, stretto nella morsa tra le minacce della mafia e quelle della procura, scrive l'ultima lettera («sono al centro di uno scontro mortale a causa dei miei viaggi americani»), esce nel cortile della caserma, si appoggia alla sua auto, estrae la pistola di ordinanza e si spara un colpo alla tempia. Ed è qui, rovesciato sul selciato del cortile e con il volto ricoperto di sangue, che lo trova e riconosce il cane del capitano De Caprio.

È a questo punto che entra in scena il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, la cui sorella è la moglie, ora la vedova, del maresciallo Lombardo. Il tenente, che è stato il collaboratore più fidato del giudice Paolo Borsellino, la sua ombra e il suo scudo, il depositario dei segreti delle sue inchieste, suo «fratello» (come lo chiama Borsellino, che non aveva fratelli), vuole difendere l'onore del cognato e insieme scoprire la verità sul suo suicidio, accompagna la sorella e i nipoti a querelare i diffamatori del maresciallo, raccoglie i documenti, ricostruisce i passaggi della vicenda, fa dichiarazioni e rilascia interviste, sollecita e promuove la presentazione di interrogazioni in Parlamento, depone per nove ore dinanzi ai magistrati, chiede e ottiene di essere ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia.

E dice fondamentalmente tre cose: che Lombardo è stato diffamato e istigato al suicidio per impedirgli di recarsi negli Stati Uniti a prelevare Badalamenti per portarlo in Italia a deporre al processo Andreotti e a smentire Buscetta; che Paolo Borsellino è stato ucciso perché indagava sull'assassinio di Giovanni Falcone, e indagava lontano dalla procura e all'insaputa dei magistrati di Caltanissetta titolari delle indagini, chiuso nella caserma dei carabinieri, di cui solo si fidava; che Giovanni Falcone era stato ucciso perché a sua volta indagava sull'assassinio di Salvo Lima e non credeva nella versione ufficiale.

È stato allora che sono spuntati i «pentiti» ad accusare il tenente Canale, prima uno, poi sette, poi dodici, poi non si sono più contati: Canale, il «fratello» di Borsellino, era un traditore di Borsellino e dello Stato, raccontava alla mafia gli sviluppi delle indagini, si vendeva le notizie per soldi, per farsi la casa, per curare la figlia affetta da un male mortale, per costruire la tomba della figlia una volta che è morta.

Come ha detto il Pm al processo, Canale era «un Giano bifronte che ha indossato per anni la divisa di servitore dello Stato, ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia, una mafia che è diventata il mostro che è grazie a individui abietti come lui».

La Via crucis di Canale è durata otto anni, tre per l'inchiesta preliminare e cinque per il processo. Nel frattempo nessuno ha dato ascolto alle sue dichiarazioni, alle sue interviste, nessuno ha risposto alle interrogazioni parlamentari, le querele sue e della vedova e dei figli di Lombardo sono state archiviate, le sue deposizioni dinanzi ai magistrati sono state usate contro di lui, la commissione parlamentare antimafia ha segretato le sue rivelazioni e non l'ha più richiamato (i commissari di sinistra hanno addirittura abbandonato la seduta per protesta mentre Canale deponeva e hanno censurato il presidente della commissione, il socialista Ottaviano Del Turco, che lo aveva invitato a deporre), i giornali e la televisione non si sono più occupati di lui e del suo processo.

Ma il tenente Canale, ignorato da tutti e «cancellato» alla maniera dell'Enciclopedia sovietica persino dallo sceneggiato televisivo sulla vita di Borsellino, ha tenuto duro e, alla fine, l'ha spuntata: «Ora dirò io - ha dichiarato dopo l'assoluzione - chi sono i veri traditori, le «menti raffinatissime» che stanno dietro al suicidio del maresciallo Lombardo e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio».

Perché non è finita qui, e piuttosto siamo solo all'inizio, riprende il discorso interrotto, le denunce che gli hanno ricacciato in gola a forza di «pentiti» otto anni fa. Ci sarà qualcuno in Parlamento, al governo, al ministero della Giustizia, al Consiglio superiore della magistratura che questa volta gli darà ascolto?

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Spock: We must acknowledge once and for all that the purpose of diplomacy is to prolong a crisis.

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