Autore |
Per gli amanti del basket |
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 14-04-2003 23:37 |
|
Earl Minigault
L’uomo che voleva sedersi sul ferro
Un giorno della prima decade del maggio ’98 l’America s’è dovuta fermare un attimo. Le radio e le televisioni le avevano appena raccontato che il cuore di Frank Sinatra aveva appena cessato di battere in una stanza lussuosa della clinica Cedars Sinai. Due ore prima s’era mozzato il respiro di una zona intera di New York City, quella conosciuta come Harem. Il sistema di comunicazione della città, lo stesso che aveva annunciato negli anni sessanta che Lew Alcindor era il più grande di sempre, allertato che Kenny Anderson e il penultimo dei Marbury erano materiale da NBA anche quando erano alle scuole medie e proclamato nei primi anni Novanta che nessun caraibico aveva mai mostrato quel che stava sciorinando un cerbiatto meticcio di nome Felipe dal Bronx, le aveva appena raccontato che il cuore di Earl Minigault, detto “”the Goat” ovvero “il Caprone”, il Re buono, l’unico uomo che poteva girare per Harem senza un penny in tasca ed avere ciò che voleva, aveva appena cessato di battere in una tetra stanza da qualche parte del quartiere…
Continua
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 14-04-2003 23:50 |
|
Earl veniva dalla Carolina del sud, nonogenito d’una famiglia afroamericana di Charleston che non sapeva proprio cosa farsene della prima bocca da sfamare, figuratevi della nona.Abbandonato per strada fu raccolto dalla signora Mary Minigault, una campagnola nera senza progenie che ne ottenne l’affido. Nella casa in legno della signora Mary mancavano acqua, riscaldamento ed elettricità ed Earl viveva in una sorta di autismo da buon selvaggio, senza contatti apparenti con il mondo esterno, tanto che in città si ritenesse fosse muto. Ci siamo intesi insomma, uno di quelli che aveva subito il più canonico dei falli intenzionali della realtà. Per quegli strani casi della vita, la signora Mary, tramite parenti caritatevoli, trovò lavoro in una lavanderia dell’Upper West Side di Manhattan. Il muto venne al seguito. Era il 1951, il trentenne Charlie Parker poppava ancora meravigliosamente a qualche isolato di distanza anche se la cirrosi gli stava già erodendo il fegato, la Kentucky di Adolph Rupp aveva recentemente vinto il terzo titolo NCAA in quattro anni, al Greenwich Villane qualche omossessuale già si teneva con discrezione per mano.
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 15-04-2003 00:26 |
|
Al muto, isolatino anzichenò a New York e un attimino sulle sue come potete agevolmente immaginare, un giorno misero in mano un pallone da basket e nel suo autismo ebbe l’immediata e chiarissima percezione che con quell’attrezzo avrebbe potuto fare cose mai viste prima, anzi cose che nessuno avesse mai nemmeno immaginato, che è molto, molto di più. Per costruire episodio su episodio, la leggenda di “the Goat” ci vogliono dieci anni, ovvero la sua intera carriera che scorre tra il suo dodicesimo e il suo ventiduesimo anno di vita. Pochi? Dipende.
Nella City, come per un maestro di spada nel Giappone medioevale o un bounty killer nell’Ovest americano dell’Ottocento, si viaggia sulla base della reputazione tramandata da azioni cui abbiano assistito testimoni attendibili. In gergo si chiama “rep”. Il primo stadio è la “neighbourhood rep”, la reputazione di quartiere, l’ultimo la “city rep”, quella estesa ai cinque quartieri della città, come a dire che a Staten Island, il quartiere di New York di cui non si parla mai, tutti sanno chi è “the Goat”, e se arriva su un campo gli astanti ne sibilano tra loro il nome e per incanto qualcuno lascia un posto in quintetto. Per una city rep basta un “pinning”. Traduzione: un avversario tira, il nostro salta e va per la stoppata, ma anziché limitarsi a rigettare il tiro, lo inchioda al tabellone o – meglio ancora – lo trattiene qualche secondo sul palmo restando in aria e – alternativamente – lo scaglia contro il mittente o tra gli spettatori, se ci sono. Rileva naturalmente anche lo sguardo di circostanza che ovviamente non concede molto alla bonomia. Anche se un buon pinning non è propriamente una cosina da nulla, per una city rep ci vuole ben altro. Earl, che a tredici anni schiacciava due palloni da volley contemporaneamente (valido per una piccola neighbourhood rep), camminava per stradacoi pesi allacciati alle caviglie e lucrava una cinquantina di dollari settimanali a nadando a raccogliere le monete sul bordo alto del tabellone, infinocchiando ignari gonzi ch credevano ancora a quella inutile leggina sulla gravità, fu, più o meno ai suoi diciotto anni, incoronato Re di Harem, uno che di rep ne ha poco bisogno. Highlights, colti tra i mille attribuitigli che ne hanno determinato l’ascesa al trono: schiacciata il 4 luglio 1966 in località Riis Beach al Queens, salendo tra due avversari torreggianti e guadagnado altri 30 cm con un colpo di reni mentre era in fase ascensionale. Suona discreta? Suona fantastica se le due vittime si chiamano Conie Hawkins e Lew Alcindor, meglio noto poi come Kareeem Abdul Jabbar che ha recentemente ricordato l’episodio definendolo come “abbondantemente oltre i confini della realtà”
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 15-04-2003 00:52 |
|
Altra perla, occorsa un anno prima ad East Harlem. Partita al chiuso, senza nomi da cartellone. “THE GOAT”, arrivato in ritardo tanto da dover discutere (poco naturalmente) per poter giocare da subito, si trova in campo aperto da solo ma sente misteriosamente che siamo in zona leggenda e attende il difensore che gli si para davanti in cerca d’un glorioso sfondamento. Il contatto avviene all’altezza del gomito sinistro dell’area, Earl salta, oddio salta, diciamo lievita, fa perno sulla nuca (sic) del difensore e con le mani scala nell’etere abbondantemente sopra i quattro metri. L’affondata che ne segue è una sorta d’uragano caraibico.
Manigault aveva giocato a Franklin – dove sarebbe dovuto andare Bellinger – da dove sarebbe stato espulso per aver fumato un cannone in bagno un mese dopo che la sua eleggibilità come giocatore di basket era venuta meno. Il preside era sembrato più permissivo quando il ragazzo, dopo aver segnato un quarantatello in una finale cittadina, aveva elargito a tutti un alito da alpino, complice la sua anomala indulgenza per il vino d’infima qualità per cui aveva sempre avuto un debole. Earl, in mezzo a una strada nel senso più letterale del termine, era stato salvato da un certo Holcombe Rucker, cui è intitolato il più celebre playground newyorkese, che tramite amicizie varie li iscrisse al Laurimburg Insitute, un collegio della North Carolina dove giocavano Charlie Scott, il primo afroamericano a vestire la maglia color del cielo dei Tar Heels e Jimmy Walker, il padre di Jalen Rose, quello dei Fab 5. Se Scott prese la via di Chapel Hill, per “THE GOAT” s’aprì una porticina a Johnson C. Smith University, un’università per soli neri a Charlotte, dove ogni primo del mese sotto il tovagliolo gli facevano trovare 25 dollari illegali con cui sopravvivere. Il coach, Bill McCollough, gradiva gioco controllato e passaggi sartoriali, ipotesi tecniche che Earl nemmeno aveva valutato in vita sua, immaginatevi quanto poi le avesse sperimentate in campo. Il “Re”, che conosceva per bene solo la legge dell’uno contro uno, di cui il pinning è solo una parziale degenerazione, conobbe ben presto la legge del pino. Una sera McCollough decise di metterlo in quintetto e Manigault ne mise 27 firmando il primo successo stagionale della squadra, salvo pinarlo di nuovo alla gara successiva.
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 15-04-2003 00:55 |
|
Quando rientrò nella Mela nel Natale del ’66 per un break festivo, sapeva che non sarebbe più tornato a ritirare i prossimi 25 dollari sotto il tovagliolo. Dieci mesi dopo avvenne l’incontro più importante della vita di Manigault. Era ottobre e il Rucker Park lo aveva visto volare per l’ennesima volta. Sotto una panchina c’era un sacchetto. Lo avessero chiamato per una birra forse oggi di lui si parlerebbe in un altro modo, ma quella sera nessuno aveva nulla da offrirgli. Nel sacchetto c’era della polvere bianca, quella che in slang si chiama “the great white lady”, l’ultima donna che avreste voluto fare incontrare al figlioccio della signora Mary. L’innocenza di Earl era ufficialmente terminata come, in pratica, la sua carriera.
Per la verità nel ’71, dopo aver già sperimentato l’odore di piscio delle galere cittadine un paio di volte, Manigault – in semimiracoloso armistizio temporaneo con la signora in bianco – venne chiamato per un try-out dagli Utah Stars della ABA. In quella squadra c’era anche B.J. Brosterhouse, l’americano col pitone, che avrebbe scaldato pochi cuori nell’Olimpia Milano dell’anno successivo. “THE GOAT” resistette una settimana. Il proprietario degli Stars Bill Daniels però lo apprezzò tanto da offrirsi di trovargli un posto in un piccolo college mormone. A Earl – che comunque sapeva a malapena leggere – bastò dare un’altra occhiata alle linde ma dolorose e totalmente astemie strade a quadrivio della Salt Lake degli anni Settanta, una sorta di confino, per chiedere di rivedere Harlem. Grave errore. L’addiction verso la signora in bianco deteriorò ulteriormente rendendo la sua esistenza un tremendo progressivo spegnersi, riattizzato da occasionali guizzi come l’aver chiesto ad un “mammasantissima” della droga newyorkese i fondi per creare il “suo” Rucker, un parco dove faceva giocare i ragazzi e che lui personalmente spazzava, magari rispondendo occasionalmente a cronisti che ogni tanto si spingevano ad Amsterdam e novantanovesima per sentirsi raccontare di come aveva buttato via la sua vita e di come cercava di riaccenderla su quel campetto. Qualche estate addietro aveva voluto a tutti i costi giocare al Legend’s game, un classico del solleone alla centoquarantacinquesima Strada. In tribuna c’era Wilt Chamberlain, di fianco al celebre e velenosissimo giornalista NBA Peter Vecsey, che anni prima lo aveva nascosto a casa sua per preservarlo dalle lame degli spacciatori cui doveva dei soldi. In campo Tiny Archibald. Tutti temevano che il suo cuore – sempre in attesa di un trapianto che non sarebbe mai potuto arrivare – cedesse quel pomeriggio e per sempre. Manigault – tra uno spasmo e l’altro – improvvisamente, ricevuto il pallone in angolo, si bevve il difensore e salì per l’ultima schiacciata della sua vita. Soltanto allora accettò di ragionare e sedersi per il resto della giornata. Il professor Cohen, un esimio luminare di politica internazionale a Priceton (mica fiaschi) che Earl onorava della sua amicizia, recentemente raccontava un aneddoto simile proprio a Vecsey. Un gruppo di giovinastri aveva apostrofato Manigault, dandogli del rottame, in un bar di Harlem dove “THE GOAT” duellava con il solito vinaccio. Earl, pur potendo tenere il campo per soli cinque minuti, li invitò nel solo luogo dove soleva discutere, il playground, per un 5 contro 5. Bastarono per una schiacciata che avrebbe reso orgoglioso Doctor J e per un buon vecchio pinning. Il tutto senza mai far andare la lingua, perennemente privo di spocchia, come conviene a un “Re Buono”, l’unico che poteva camminare per Harlem senza un penny e chiedere ciò che voleva. Gli restava solo un rimpianto che confessò pochi mesi prima di morire. Essendosi reso conto in decine d’occasioni di trovarsi con la vita all’altezza del ferro nelle sue escursioni aeree, sognava – con la lucida follia poetica di Fitzcarraldo, colui che voleva edificare un teatro d’opera sul Rio delle Amazzoni – di realizzare l’irrealizzabile e regalarlo alla posterità: schiacciare e poi sedersi sul ferro! Siccome nessuno ha imposto alla realtà inframondana il lieto fine, non ci riuscì mai, pur non essendoci andato troppo lontano. Non importa. Se mai vi trovaste ad Harlem ai bordi d’un campo da basket, chiedete a chi volete se il RE è vivo ed avrete una sola risposta. L’unica possibile.
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
Alessandro
 Reg.: 12 Nov 2002 Messaggi: 1274 Da: Milano (MI)
| Inviato: 15-04-2003 01:25 |
|
Bellissimo. Complimenti.
La storia di The Goat mi era nota, avevo visto anche il film biografico, ma è sempre un piacere sentire e risentire la sua storia.
Con molto rammarico,ovviamente. Per ciò che avrebbe potuto essere.
_________________ Io sono tutti. |
|
jena1997
 Reg.: 09 Dic 2002 Messaggi: 229 Da: Torino (TO)
| Inviato: 15-04-2003 09:31 |
|
Quando hanno chiesto a Kareem Abdul Jabbar chi è stato il più grande giocatore di basket di sempre non ha risposto Jordan o Chamberlain, ma Earl Minigault.
Complimenti a Kaiser per l'ottima biografia.
Jena
_________________ "Quello che la gente ama più dell'eroe è vederlo cadere." |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 15-04-2003 10:42 |
|
Beh mi sarebbe piaciuta scriverla, in realtà è tratta da libro di Federico Buffa "Black Jesus"
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
Alessandro
 Reg.: 12 Nov 2002 Messaggi: 1274 Da: Milano (MI)
| Inviato: 15-04-2003 11:04 |
|
Già. Diverse cose sono state scritte su questa leggenda. In rete se ne possono trovare moltissime.
Per esempio, non mi spiego ancora una cosa:
nella NBA odierna, il maggior "vertical leap", cioè il salto in verticale, senza rincorsa ma solo con un passo, ce l'hanno i giovannissii dei Clippers (Maggette & C.): 40 pollici, circa un metro. Che già è imbarazzante.
Dai dati, risulta che quello di Manigault alla High School (parliamo dei primi anni '60...) fosse 52 pollici: 130 cm di aria sotto i piedi.
Quello che più impressiona, comunque, non è quanto stesse in aria, o la doppia schiacciata, o le monetine sul tabellone o il 720°... è sapere quanti fenomeni come lui sono andati bruciati (tutti leggende dei playground, ma chi in prigione, chi eroinomane, chi ucciso). Dà molto fastidio. Forse oggi succede molto meno, perchè gli scouts se li tengono ben stretti, quelli che trovano, ma la lista è lunga (trovate pure quella, in rete), dagli anni '60 ai '90.
E mi induce a pensare anche una cosa: chissà qual è il vero basket, o se lo sono entrambi: quello professionistico, o quello da campetto. E se chi è stato Re nel secondo, avrebbe mai potuto esserlo anche nel primo.
Ci vuole fortuna, molta. Le persone giuste attorno e le decisioni giuste. Se no sei fottuto. Soprattutto ad Harlem, e soprattutto negli anni '60.
_________________ Io sono tutti. |
|
KaiserSoze

 Reg.: 02 Ott 2001 Messaggi: 6945 Da: Quartu Sant'Elena (CA)
| Inviato: 15-04-2003 11:14 |
|
Si hai ragione, tanti talenti sprecati, io penso però che questi personaggi avessero prima di tutto delle grandi doti atletiche che li facevano eccellere in una partita di playground dove fondamentalmente si gioca uno contro uno, il basket vero è un'altra cosa è uno sport di squadra puoi eccellere senza essere a questi livelli atletici di Bird si diceva che non sarebbe mai potuto essere un grande, bianco, troppo lento non salta e invece...
Cmq nel libro di Buffa ci sono altre interessanti storie una riguarda la rivalità da playground tra Iverson e Marbury...
_________________ Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi. |
|
Alessandro
 Reg.: 12 Nov 2002 Messaggi: 1274 Da: Milano (MI)
| Inviato: 15-04-2003 16:50 |
|
...Accidenti, devo comprarlo assolutamente!
_________________ Io sono tutti. |
|
|