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Antologia di Zvanì Pascoli |
Ondina ex "Plumett"
 Reg.: 24 Apr 2003 Messaggi: 2205 Da: Padova (PD)
| Inviato: 13-04-2005 17:51 |
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Per fare onore al mio amatissimo poeta preferito,pongo una serie di poesie tratte dai suoi Primi poemetti (sebbene un'antologia delle Myricae non sfigurerebbe affatto,anzi)che spero interessino a persone di buon cuore,come lo era lui.
L'ALBA
I
Allor che Rosa dalle bianche braccia
aprì le imposte, piccola e lontana
dal cielo la garrì la cappellaccia.
Dalla Pieve a' Cipressi la campana
sonava l'alba: in alto, sul Mongiglio
erano bianchi bioccoli di lana.
Raspava una gallina sopra il ciglio
d'un fosso. Po s'alzò, scosse la brina,
scodinzolando, con uno sbadiglio.
Ed al frizzar dell'aria mattutina,
nel comun letto si svegliò Viola,
all'improvviso, e mormorò: “Rosina!
Rosina!”. E già taceva la chiesuola
lasciando udire un canto di fringuello,
e, per i campi ombrati di viola,
lo squillar de' pennati sul marrello.
II
E Rosa in tanto, al davanzale, i semi
coglieva d'una spiga d'amorino,
e mondava dal secco i crisantemi.
Si sfumò d'oro un bioccolo argentino:
oh! una mandra, tutta oro, tranquilla
pasceva in alto in mezzo al cilestrino.
Corsero come guizzi di pupilla;
tutto via via razzava: un fil di paglia
nel concio nero, un ciottolo, una stilla.
Ma il sole entrava come in una maglia
sottil di nubi d'un color d'opale,
e traspariva dalla nuvolaglia.
Rosa si ravviava al davanzale:
or luce, or ombra si sentìa sul viso;
ché il sol montando per il cielo a scale
appariva e spariva all'improvviso.
III
Appariva e spariva; e venìa meno
la terra all'occhio, e poi, come in un fiato,
tutto balzava su verso il sereno.
A monte, a mare, ella guardò: guardato
ch'ebbe, ella disse (udiva sui marrelli
a quando a quando battere il pennato):
“Aria a scalelli, acqua a pozzatelli”.
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Ondina ex "Plumett"
 Reg.: 24 Apr 2003 Messaggi: 2205 Da: Padova (PD)
| Inviato: 13-04-2005 17:52 |
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LA CINCIA
I
Sorrise, e disse che una volta c'era
un re piccino; e s'egli era piccino,
la sua reggia era grande e nera nera.
E un aio aveva questo reattino
nero, e l'aio era lì sempre a gracchiare,
e più, quando vedea torbo il mattino.
Il re veniva alle finestre a mare,
il re veniva alle finestre a monte:
“Avessi l'ale! Potessi volare!”
Nitrir sentiva alla sua voce pronte
le sue pulledre sparse alla pastura
nel grande prato ch'era dopo il ponte.
E quel nitrito, per le antiche mura,
per gl'infiniti muti colonnati,
destava i cani; e nella reggia oscura
rimbombavano in tanto alti latrati.
II
Or una fata l'ode. Ecco, sia fatto!
La gran reggia doventa una gran macchia
a colonne di pino e d'albogatto.
Nera tra i lecci vola una cornacchia.
È l'aio. Vola su brentoli e mortelle,
libero, il recacchino, il redimacchia.
E il curvo collo svincolano snelle
quelle pulledre scalpitando, ed ecco
ch'elle frullano azzurre cinciarelle.
Tengono l'osso ancora (od uno stecco?)
le cinciallegre, piccoli mastini,
sotto le zampe, e picchiano col becco.
Dunque, dagli albigatti esse e da' pini
fanno la guardia, e il re ne' suoi sambuchi,
tra molta signoria di fiorrancini,
regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.
III
Così, vedete, il cacciator che gira,
vede calare un branco. Egli bel bello
s'appressa, egli già mira, egli già tira...
suona un nitrito tremulo d'uccello,
come starnuto, suona un bau bau chiaro,
come doppio squillar di campanello;
e il branco fugge prima dello sparo.
LA NOTTE
I
Nella notte scrosciò, venne dirotta
la pioggia, a striscie stridule infinite;
e il tuono rotolò da grotta a grotta.
Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite
tacito sonno, non udiva. Udiva
nascere l'erba. Vide le pipite
verdi. Il grano sfronzò, quindi accestiva.
Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:
candido il monte, candida la riva.
No: quel bianco era fiori d'albicocco
e di susino, e l'ape uscìa dal bugno
ronzando, e il grano già facea lo stocco:
Anzi graniva; ch'era già di giugno.
La cicala friniva su gli ornelli.
Egli l'udiva, con la falce in pugno.
L'acqua veniva stridula a ruscelli.
II
L'acqua veniva, stridula, a ruscelli.
Rosa dormiva e non udiva: udiva
cantare al bosco zigoli e fringuelli.
Era nel bosco, nella reggia estiva
del redimacchia. Intorno udìa beccare.
gemme di pioppo e mignoli d'uliva.
E la macchia pareva un alveare,
piena di frulli e di ronzìi. Ma ella
sentiva anche un frugare, uno sfrascare,
un camminare. Chi sarà? Ma in quella
che riguardava tra un cespuglio raro,
improvvisa cantò la cinciarella.
E sonò d'ogni parte il bau bau chiaro,
come un tintinno, delle cincie; ed ecco
pronto all'orecchio risonar lo sparo.
Ma era un tuono, che rimbombò secco.
III
E tra il tumulto carezzò Viola
che s'era desta e che piangea. Pian piano
l'addormentava. E Rosa rifù sola.
Pensava... i licci della tela, il grano
della sementa, il cacciatore... e Rosa
lo ricercava. Dove mai? Lontano.
In una reggia. E risognò... Che cosa?
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Ondina ex "Plumett"
 Reg.: 24 Apr 2003 Messaggi: 2205 Da: Padova (PD)
| Inviato: 13-04-2005 17:53 |
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IL VISCHIO
I
Non li ricordi più, dunque, i mattini
meravigliosi? Nuvole a' nostri occhi,
rosee di peschi, bianche di susini,
parvero: un'aria pendula di fiocchi,
o bianchi o rosa, o l'uno e l'altro: meli,
floridi peri, gracili albicocchi.
Tale quell'orto ci apparì tra i veli
del nostro pianto, e tenne in sé riflessa
per giorni un'improvvisa alba dei cieli.
Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l'ape da' suoi bugni uscita
pasceva già l'illusïone; ond'essa
fa, come io faccio, il miele di sua vita.
II
Una nube, una pioggia... a poco a poco
tornò l'inverno; e noi sentimmo, chiusi
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell'orto.
Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i petali a terra. E su l'aurora
noi calpestammo le memorie vane
ognuna con la sua lagrima ancora.
III
Ricordi? Io dissi: “O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
della vita: la sua lieve fiorita
d'ali. La pianta che a' suoi rami vede
i mille pomi sizïenti, addita
per terra i fiori che all'oblìo già diede...
Non però questa (io m'interruppi), questa
che non ha frutti ai rami e fiori al piede”.
Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
tolto che foglie, nate per cadere.
IV
Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
albero tristo, ch'hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, né il fischio
del nembo che flagella aspro la vite...
ah! sono in te le radiche del vischio!
V
Qual vento d'odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t'inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
E tu languivi; e la bellezza e il bene
t'uscìa di mente, né pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de' tuoi pomi e il profumo de' tuoi fiori,
sono una perla pallida di muco.
VI
Due anime in te sono, albero. Senti
più la lor pugna, quando mai t'affisi
nell'ozïoso mormorio dei venti?
Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de' bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
e che d'amore abbrividiva ai voli
d'api villose, già sé stessa ignora.
Tu vivi l'altra, e sempre più t'involi
da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l'ombra straniera è già di te più forte,
più te. Sei tu, checché gemmasti allora,
ch'ora distilli il glutine di morte.
IL TORELLO
I
Su la riva del Serchio, a Selvapiana,
di qua del Ponte a cui si ferma a bere
il barrocciaio della Garfagnana,
da Castelvecchio menano, le sere
del dì di festa, il lor piccolo armento
molte ragazze dalle treccie nere.
Siedono là sul margine, col mento
sopra una mano, riguardando i pioppi
bianchi del fiume; e parlano. Ma il vento
porta brusìo di voci, eco di scoppi
di mortaretti, eco di passi presta
ed un confuso tremito di doppi.
Dolce ascoltare allora, con la testa
voltata altrove, quelle due parole...
coperte un po' dalle campane a festa!
altrove... al Serchio che risplende, al sole
che prende il monte... o Nelly, anco ai vivagni
del tuo pannello, anco alle mucche sole
che brucano il palèo sotto i castagni.
II
To'... quel vitello - al cui grande occhio appari
immensa, con un lento albero in mano,
quando con una vetta tu lo pari -
guarda stupito, nuovo, al monte, al piano:
tutto una selva, il monte; la costiera
sembra un velluto tenero di grano.
Egli che non sapea la primavera,
la dura coda svincola, saluta
il mondo bello. Prima, esso non c'era:
ci si ritrova: fiuta l'aria, fiuta
la terra: all'aria sobbalzando avventa
le brevi corna della fronte bruta;
e con le zampe irrequïete tenta
la terra. Il cielo è tutto pieno d'oro,
Nelly, ed il suolo è tutto pien di menta.
Vuole empir della sua gioia il sonoro
spazio, il vitello, e trae dalle profonde
fauci un muglio arrotato, agro, di toro.
Una giovenca lontana risponde.
III
Dunque, Nelly, rimeni oggi un torello:
savio, però, che sempre ha te di fronte
con nella mano il grande albero snello.
Arrivi a Castelvecchio, alla sua fonte
nuova, perenne, a cui vengono in fila
le gravi mucche nel calar dal monte.
Queste, da un canto, alla marmorea pila
succhiano l'acqua; e quando alzano il collo,
l'acqua dalle narici nere fila.
Dall'altro, suona, empiendosi al rampollo
vivo, la secchia: una fanciulla aspetta
con sui riccioli bruni il suo corollo.
A questa fonte, o Nelly, ora s'affretta
il tuo torello, a bere: dalla piena
conca l'acqua discende alla cunetta,
così ch'ell'ha come un pulsar di vena.
Egli guarda coi grossi occhi, né beve;
ché dentro l'acqua che si muove appena,
vede un coltello azzurro ondeggiar lieve...
IV
Mugola e fugge. E poi mugolando erra
due dì, da selva a selva, nel suo colle,
strappando qualche fil d'erba alla terra.
Cerca dolente le segrete polle
verdi di capelvenere; vi mira
dentro: il coltello taglia l'ombra molle.
Aspetta al pozzo, quando alcuna tira
la secchia: l'acqua vi trabocca e sbalza:
dentro, il coltello gira gira gira.
Allora, al botro: dall'aerea balza,
scende: il coltello posa su la ghiaia;
ma la corrente un po' l'urta, e lo scalza
forse, e lo porta. Aspetta egli: si sdraia
sui lisci giunchi, e coi grandi occhi spia,
fissando l'acqua di tra la giuncaia,
se mai quell'ombra della morte via
portino l'onde. Sopra la sua testa
il tempo corre per la muta via.
Aspetta: e l'acqua passa e l'ombra resta.
V
Il terzo giorno... “Ecché tu piangi, sciocca?
Sa 'ssai! En bestie, 'un ci han lunari: scólta:
'un si sa gnanco noi quel che ci tocca!”
dice tuo padre, o Nelly. Tu sei volta
alla Via Nova, guardi nella valle,
per vederlo passare anche una volta.
Passa: un uomo alla testa, uno alle spalle:
è impastoiato, ad or ad or trempella...
Passa... Oh! poggi solivi! ombrose stalle!
E quanto fieno! quanta lupinella!
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Ondina ex "Plumett"
 Reg.: 24 Apr 2003 Messaggi: 2205 Da: Padova (PD)
| Inviato: 14-04-2005 15:13 |
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Tra le più significative sono le seguenti:
DIGITALE PURPUREA
I
Siedono. L'una guarda l'altra. L'una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna,
l'altra... I due occhi semplici e modesti
fissano gli altri due ch'ardono. “E mai
non ci tornasti?” “Mai!” “Non le vedesti
più?” “Non più, cara.” “Io sì: ci ritornai;
e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;
quei piccoli anni così dolci al cuore...”
L'altra sorrise. “E di': non lo ricordi
quell'orto chiuso? i rovi con le more?
i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di...?”
“morte: sì, cara”. “Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.
Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l'aria; un suo vapor che bagna
l'anima d'un oblìo dolce e crudele.
Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!” Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;
e l'una e l'altra guardano lontano.
II
Vedono. Sorge nell'azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d'incenso.
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d'odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d'innocenza e di mistero.
E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena appena tocche...
Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate
oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d'un tratto (perché mai?) piangete...
Piangono, un poco, nel tramonto d'oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell'orto, bianco qua e là di loro!
Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.
In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,
l'alito ignoto spande di sua vita.
III
“Maria!” “Rachele!” Un poco più le mani
si premono. In quell'ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.
Memorie (l'una sa dell'altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d'un ultimo saluto!
“Maria!” “Rachele!” Questa piange, “Addio!”
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: “Io,”
mormora, “sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d'un sogno che notturno arse e che s'era
all'alba, nell'ignara anima, spento.
Maria, ricordo quella grave sera.
L'aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M'inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
tanta, che, vedi... (l'altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido...) si muore!”
LA QUERCIA CADUTA
Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria, un pianto... d'una capinera
che cerca il nido che non troverà.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre... adagio, per non farti male.
I DUE FANCIULLI
I
Era il tramonto: ai garruli trastulli
erano intenti, nella pace d'oro
dell'ombroso viale, i due fanciulli.
Nel gioco, serio al pari d'un lavoro,
corsero a un tratto, con stupor de' tigli,
tra lor parole grandi più di loro.
A sé videro nuovi occhi, cipigli
non più veduti, e l'uno e l'altro, esangue,
ne' tenui diti si trovò gli artigli,
e in cuore un'acre bramosia di sangue,
e lo videro fuori, essi, i fratelli,
l'uno dell'altro per il volto, il sangue!
Ma tu, pallida (oh! i tuoi cari capelli
strappati e pésti!), o madre pia, venivi
su loro, e li staccavi, i lioncelli,
ed “A letto” intimasti “ora, cattivi!”
II
A letto, il buio li fasciò, gremito
d'ombre più dense; vaghe ombre, che pare
che d'ogni angolo al labbro alzino il dito.
Via via fece più grosse onde e più rare
il lor singhiozzo, per non so che nero
che nel silenzio si sentia passare.
L'uno si volse, e l'altro ancor, leggero:
nel buio udì l'un cuore, non lontano
il calpestìo dell'altro passeggero.
Dopo breve ora, tacita, pian piano,
venne la madre, ed esplorò col lume
velato un poco dalla rosea mano.
Guardò sospesa; e buoni oltre il costume
dormir li vide, l'uno all'altro stretto
con le sue bianche aluccie senza piume;
e rincalzò, con un sorriso, il letto.
III
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all'ombra del destino ignoto
che ne circonda, e a' silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d'un'ape dentro il bugno vuoto.
Uomini, pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d'aver fratelli in suo timor, non erra.
Pace, fratelli! e fate che le braccia
ch'ora o poi tenderete ai più vicini,
non sappiano la lotta e la minaccia.
E buoni veda voi dormir nei lini
placidi e bianchi, quando non intesa,
quando non vista, sopra voi si chini
la Morte con la sua lampada accesa.
NELLA NEBBIA
E guardai nella valle: era sparito
tutto! sommerso! Era un gran mare piano,
grigio, senz'onde, senza lidi, unito.
E c'era appena, qua e là, lo strano
vocìo di gridi piccoli e selvaggi:
uccelli spersi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenzïosi eremitaggi.
Ed un cane uggiolava senza fine,
né seppi donde, forse a certe péste
che sentii, né lontane né vicine;
eco di péste né tarde né preste,
alterne, eterne. E io laggiù guardai:
nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
Chiesero i sogni di rovine: - Mai
non giungerà? - Gli scheletri di piante
chiesero: - E tu chi sei, che sempre vai? -
Io, forse, un'ombra vidi, un'ombra errante
con sopra il capo un largo fascio. Vidi,
e più non vidi, nello stesso istante.
Sentii soltanto gl'inquïeti gridi
d'uccelli spersi, l'uggiolar del cane,
e, per il mar senz'onde e senza lidi,
le péste né vicine né lontane.
LA GRANDE ASPIRAZIONE
Un desiderio che non ha parole
v'urge, tra i ceppi della terra nera
e la raggiante libertà del sole.
Voi vi torcete come chi dispera,
alberi schiavi! Dispergendo al cielo
l'ombra de' rami lenta e prigioniera,
e movendo con vane orme lo stelo
dentro la terra, sembra che v'accori
un desiderio senza fine anelo.
- Ali e non rami! piedi e non errori
ciechi di ignave radiche! - poi dite
con improvvisa melodia di fiori.
Lontano io vedo voi chiamar con mite
solco d'odore; vedo voi lontano
cennar con fiamme piccole, infinite.
E l'uomo, alberi, l'uomo, albero strano
che, sì, cammina, altro non può, che vuole;
e schiavi abbiamo, per il sogno vano,
noi nostri fiori, voi vostre parole.
IL LIBRO
I
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli - se n'ode il crepitar leggiero -
le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
II
Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all'estrema, rapido, e pian piano
va, dall'estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell'ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l'impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno, lenta-
mente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta... Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?... Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.
III
E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l'ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n'odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.
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Fakuser
 Reg.: 04 Feb 2005 Messaggi: 2656 Da: Milano (MI)
| Inviato: 19-05-2008 21:55 |
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Poesia al massimo grado, senza nulla togliere ai poemetti antologizzati sopra.
LA CETRA D'ACHILLE
I
I re, le genti degli Achei vestiti
di bronzo, tutti, sì, dormian domati
dal molle sonno, e i lor cavalli sciolti
dal giogo, avvinti con le briglie ai carri,
pascean, soffiando, il bianco orzo e la spelta.
Dormivano i custodi anche de' fuochi,
abbandonato il capo sugli scudi
lustri, rotondi, presso i fuochi accesi,
al cui guizzare balenava il rame
dell'armi, come nuvolaglia a notte,
prima d'un nembo: Domator di tutto
teneva il sonno i Panachei chiomanti,
mirabilmente, nella notte ch'era
l'ultima notte del Pelide Achille;
e in cuore ognuno lo sapea, nel cielo
e nella terra, e tutti ora sbuffando:
dalle narici il rauco sonno, in sogno
lo vedean fare un grande arco cadendo,
e sollevare un vortice di fumo;
ma in sogno senza altro fragor cadeva,
simile ad ombra; e senza suono, a un tratto,
i cavalli e gli eroi misero un ringhio
acuto, i carri scosser via gli aurighi,
mentre laggiù, sotto Ilio, alta e feroce
la bronzea voce si frangea, d'Achille.
II
Dormian, sì, tutti; e tra il lor muto sonno
giungeva un vasto singhiozzar dal mare.
Piangean le figlie del verace Mare,
nel nero Ponto, l'ancor vivo Achille,
lontane, ch'egli non ne udisse il pianto.
Ed altre, sì, con improvviso scroscio
ululando montavano alla spiaggia,
per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:
fuggian con grida e gemiti e singhiozzi
lasciando le lor bianche orme di schiuma.
Ma non le udiva, benché desto, Achille,
desto sol esso; ch'egli empiva intanto
a sé l'orecchio con la cetra arguta,
dedalea cetra, scelta dalle prede
di Thebe sacra ch'egli avea distrutta.
Or, pieno il cuore di quei chiari squilli,
non udiva su lui piangere il mare,
e non udiva il suo vocale Xantho
parlar com'uomo all'inclito fratello,
Folgore, che gli rispondea nitrendo.
L'eroe cantava i morti eroi, cantava
sé, su la cetra già da lui predata.
Avea la spoglia, su le membra ignude,
d'un lion rosso già da lui raggiunto,
irsuta, lunga sino ai pie' veloci.
III
Così le glorie degli eroi consunti
dal rogo, e sé con lor cantava Achille,
desto sol esso degli Achei chiomanti:
ecco, avanti gli stette uno, canuto,
simile in vista a vecchio dio ramingo.
E gli fu presso e gli baciò le mani
terribili. Sbalzò attonito Achille
su, dal suo seggio, e il morto lion rosso
gli raspò con le curve unghie i garretti.
E gli volgeva le parole alate:
Vecchio, chi sei? donde venuto? Sembri,
sì, nell'aspetto Priamo re, ma regio
non è il mantello che ti para il vento.
Chi ti fu guida nella notte oscura?
Parla, e per filo il tutto narra, o vecchio.
E gli parlava rispondendo il vecchio:
No, non ti sono io re, splendido Achille;
un dio felice non mi fu l'auriga:
io da me venni. Tutti, anche i custodi
dormono presso il crepitar dei fuochi.
Tu solo vegli; e non udii, venendo,
ch'esili stridi dagli eroi sopiti,
e che un sommesso brulichio dai morti.
E nella sacra notte a me fu guida
un suono, il suono d'una cetra, Achille.
IV
Lo guardò scuro e gli rispose Achille:
Tu non m'hai detto il caro nome, e donde
vieni e perché. Non forse tu notturno
vieni, alle navi degli Achei ricurve,
per dono grande, ad esplorare, o vecchio?
E gli parlava rispondendo il vecchio:
Io sono aedo, o pieveloce Achille,
caro ai guerrieri, non guerriero io stesso.
Io nacqui sotto la selvosa Placo,
in Thebe sacra, già da te distrutta.
Da te non vengo a liberarmi un figlio
cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;
il figlio, no; recando qui sul forte
plaustro mulare tripodi e lebeti
e pepli e manti e molto oro nell'arca.
Non a me copia, non a te n'è d'uopo;
ché tu sei già del tuo destino, e tutti
lo sanno, il cielo, l'infinito mare,
la nera terra, e lo sai tu ch'hai dato
ai cari amici le tue prede e i doni
splendidi; ansati tripodi, cavalli,
muli, lustranti buoi, donne ben cinte,
e grigio ferro, e reso Ettore al padre
e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi
dunque all'aedo la sua cetra, Achille!
V
Disse, e sporgea la mano alla sua cetra
bella, dedalea, ma l'argenteo giogo
era dai peli del lion coperto.
E il cuor d'Achille, mareggiava, come
il mare in dubbio di spezzar la nave,
piccola, curva. E poi parlava, e disse:
TE'; riporgendo al pio cantor la cetra;
non sì che, urtando nel pulito seggio,
non mettesse, tremando, ella uno squillo.
Poi tacque, in mano dell'aedo, anch'ella.
Allora, stando, il pari a un dio Pelide
udì ringhiare i suoi grandi cavalli,
intese Xantho favellar com'uomo,
e parlar della sua morte al fratello,
Folgore, che gli rispondea nitrendo.
Allora udì su lui piangere il mare,
pianger le figlie del verace Mare,
lui, così bello, lui così nel fiore;
e molte con un improvviso scroscio
venir per trarlo via con sé; ma in vano.
E vide nella sacra notte il fato
suo, che aspettava alle Sinistre Porte,
come l'auriga asceso già sul carro,
la sferza in pugno, che all'eroe si volge,
sopragiungente nel fulgor dell'armi.
VI
E il vecchio disse le parole alate:
Lascia ch'io vada senz'indugio, e porti
- meco la cetra, che non forse il cuore
nero t'inviti a piangere, su questa
cetra di glorie, l'ancor vivo Achille.
Lascia che pianga e mare e terra e cielo;
tu no. Non devi inebbriar di canto
tu, divo Achille, l'animo sereno
che sa, non devi a te celare il fato,
non che ti volle ma che tu volesti.
Restaci grande, o Peleiade Achille!
Noi, canteremo. Noi di te diremo
che, sì, piangevi, ma lontano e solo,
e che dicevi il tuo dolore all'onde
del mare ed alle nuvole del cielo.
E noi diremo che una dea non vista
a frenar la tua fosca ira veniva,
e ti prendea per la criniera rossa,
rossa criniera che così sconvolta
poi ti lisciava un'altra dea non vista,
nel tuo dolore; e che obbedivi a voci
dell'infinito o cielo o mare: avanti,
spingendo con un grande urlo d'auriga
verso la morte l'immortal tuo Xantho.
Disse e disparve nell'ambrosia notte.
VII
E stette Achille ad ascoltare i ringhi
de' suoi cavalli, e più lontano il pianto
delle Nereidi, e dentro i lor singhiozzi
sentì più trista, sì ma più sommessa,
la voce della sua cerulea madre.
Anche sentì tra il sonno alto del campo
passar con chiaro tintinnìo la cetra,
di cui tentava il pio cantor le corde;
mentre i cavalli sospendean, fremendo,
di dirompere il bianco orzo e la spelta.
Passava il canto tra la morte e il sogno:
qualche avvoltoio, sorto su dai morti,
gli eroi viventi ventilava in fronte.
Lontanò ella sotto il cielo azzurro,
e poi vanì. Né più la intese Achille.
Né gli restava, oltre i cavalli e il carro
da guerra e le stellanti armi, più nulla,
se non montare sopra i due cavalli,
fulgido, in armi, come Sole, andando
al suo tramonto. Quando udì vicino
un singulto: Briseide su la soglia
stava, e piangeva, la sua dolce schiava.
Ed egli allora si corcò tenendo
lei tra le braccia, con su lor la pelle
del lion rosso; ed aspettò l'aurora.
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ANTÌCLO
I
E con un urlo rispondeva Antìclo,
dentro il cavallo, a quell'aerea voce;
se a lui la bocca non empìa col pugno
Odisseo, pronto, gli altri eroi salvando;
e ognun chiamando tuttavia per nome
la voce alata dileguò lontano;
fin ch'all'orecchio degli eroi non giunse
che il loro corto anelito nel buio;
come già prima, quando già lì fuori
impallidiva il vasto urlìo del giorno,
l'urlìo venato da virginei cori,
che udian dietro una nera ombra di sonno;
nel lungo giorno; e poi languì, ché forse
era già sera, e forse già sul mare
tremolava la stella Espero, e forse
la luna piena già sorgea dai monti;
ed allora una voce ecco al cavallo
girare attorno, che sonava al cuore
come la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una
II
Era la donna amata, era la donna
lontana, accorsa, in quella ora di morte,
da molta ombra di monti, onda di mari:
sbalzò ciascuno quasi a porre il piede
su l'inverdita soglia della casa.
Ma tutti un cenno di Odisseo contenne:
Antìclo, no. Poi ch'era forte Antìclo,
sì, ma per forza; e non avea la gloria
loquace a cuore, ma la casa e l'orto
d'alberi lunghi e il solatìo vigneto
e la sua donna. E come udì la voce
della sua donna, egli sbalzò d'un tratto
su molta onda di mari, ombra di monti;
udì lei nelle stanze alte il telaio
spinger da sé, scendere l'ardue scale;
e schiuso il luminoso uscio chiamare
lui che la bocca aprì, tutta, e vi strinse
il grave pugno di Odisseo Cent'arte;
e sentì nella conca dell'orecchio
sibilar come raffica marina:
Helena! Helena! è la Morte, infante!
III
Ma quella voce gli restò nel cuore;
e quando uscì con gli altri eroi - la luna
piena pendeva in mezzo della notte -
gli nereggiava di grande ira il cuore;
e per tutto egli uccise, arse, distrusse.
Gittò nel fuoco i tripodi di bronzo,
spinse nel seno alle fanciulle il ferro;
ché non prede voleva; egli voleva
udir, tra grida e gemiti e singulti,
la voce della sua donna lontana.
Ma era nella sacra Ilio il nemico
di gloria Antìclo, non in Arne ancora,
fertile d'uva, o in Aliarto erboso:
e in un vortice rosso Ilio vaniva
a' piè del plenilunïo sereno.
Morti i guerrieri, giù nelle macerie
fumide i Danai ne battean gl'infanti,
alle lor navi ne rapian le donne:
e d'Ilio in fiamme al cilestrino mare,
dalle Porte al Sigeo bianco di luna,
passavano con lunghi ululi i carri.
IV
Ma non ancora alle Sinistre Porte
Antìclo eroe dalla città giungeva.
Lì l'auriga attendeva il suo guerriero
insanguinato; e oro e bronzo, il carro,
e la giovane schiava alto gemente.
Voto era il carro, solo era l'auriga:
legati con le briglie abili al tronco
del caprifico, in cui fischiava il vento,
i due cavalli battean l'ugne a terra,
fiutando il sangue, sbalzando alle vampe.
Ma non giungeva Antìclo: egli giaceva
sul nero sangue, presso l'alta casa
di Deifobo. E dentro eravi ancora
fremere d'ira, strepere di ferro:
poi che, intorno all'amante ultimo, ancora
gli eroi venuti con le mille navi,
Locri, Etoli, Focei, Dolopi, Abanti,
contendean ai Troiani Helena Argiva;
tutti per lei si percotean con l'aste
i vestiti di bronzo e i domatori
di cavalli; e le loro aste, stridendo,
rigavano di lunghe ombre le fiamme.
V
Ma pensava alla sua donna morendo
Antìclo, presso l'atrïo sonoro
dell'alta casa. E divampò la casa
come un gran pino; ed al bagliore Antìclo
vide Lèito eroe sul limitare.
Rapido a nome lo chiamò: gli disse:
Lèito figlio d'Alectryone, trova
nell'alta casa il vincitore Atride,
di cui s'ode il feroce urlo di guerra.
Digli che fugge alle mie vene il sangue
sì come il vino ad un cratere infranto.
E digli che per lui muoio e che muoio
per la sua donna, ed ho la mia nel cuore.
Che venga la divina Helena, e parli
a me la voce della mia lontana:
parli la voce dolce più che niuna,
come ad ognuno suona al cuor sol una.
VI
Disse, e la casa entrò Lèito, e seguiva
tra le fiamme il feroce urlo di guerra,
che come tacque, egli trovò l'Atride
poggiato all'asta dalla rossa punta,
dritto, col piede sopra il suo nemico.
E contro gli sedeva Helena Argiva,
tacita, sopra l'alto trono d'oro;
e lo sgabello aveva sotto i piedi.
E Lèito disse al vincitore Atride:
Uno mi manda, da cui fugge il sangue
sì come il vino da cratere infranto:
Antìclo, che muore per te, che muore
per la tua donna, ed ha la sua nel cuore.
Oh! vada la divina Helena, e parli
a lui la voce della sua lontana,
la voce dolce forse più che niuna,
e come suona forse al cuor sol una.
VII
E così, mentre già moriva Antìclo,
veniva a lui con mute orme di sogno
Helena. Ardeva intorno a lei l'incendio,
su l'incendio brillava il plenilunio.
Ella passava tacita e serena,
come la luna, sopra il fuoco e il sangue.
Le fiamme, un guizzo, al suo passar, più alto;
spremeano un rivo più sottil le vene.
E scrosciavano l'ultime muraglie,
e sonavano gli ultimi singulti.
Stette sul capo al moribondo Antìclo
pensoso della sua donna lontana.
Tacquero allora intorno a lei gli eroi
rauchi di strage, e le discinte schiave.
E già la bocca apriva ella a chiamarlo
con la voce lontana, con la voce
della sua donna, che per sempre seco
egli nell'infinito Hade portasse;
la rosea bocca apriva già; quand'egli
- No - disse: - voglio ricordar te sola. -
_________________ Silencio... |
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