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Autore Centochiodi
Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 30-03-2007 10:47  
“Ho passato una vita a raccontare storie per il cinema”.
Così Olmi si congeda dal proprio pubblico con quello che, per sua scelta, sarà l’ultimo film di finzione che realizzerà nella sua lunga carriera di cineasta, apertasi nell’ormai lontano ’59 con Il tempo si è fermato, e proseguita attraverso pellicole importanti, come L’albero degli zoccoli, Lunga vita alla signora e Il mestiere delle armi. Tutta la filmografia di Olmi emana un’aura di autorialità pacata ma ferma, in tutti i film si riconosce una fattura da ottimo artigiano del cinema, oltre che una sensibilità profonda e curiosa.
Per lunghi tratti della sua carriera il regista è stato attaccato sul campo dei sistemi di riferimento, essendo egli uno dei pochissimi autori profondamente e non banalmente cattolici del panorama italiano. Sono state tante, dunque, le battaglie silenziose di Olmi, mai combattute a mezzo stampa, attraverso proclamazioni d’intenti e apologie o attacchi di sorta, ma sempre condotte attraverso il linguaggio che sapeva meglio usare, quello del cinema.
Partendo da questo ricco background, c’è qualcosa che stona nel suo ultimo lavoro, a partire dal poster (pensato bene e realizzato male), sul quale campeggia un inequivocabile sottotitolo: “Nessuna religione ha mai salvato il mondo”. Mai tale apoditticità aveva segnato un film di Olmi, né tanto meno in nessun caso il senso e il cuore profondo di una sua pellicola non era pieno possesso dell’intelletto dello spettatore, che in questo caso, al contrario, subisce suo malgrado uno schema che, persino al film stesso, per come poi viene sviluppato, va stretto.
Centochiodi parte da un gesto assurdo quanto sentito: cento libri antichi vengono inchiodati sul pavimento e sui tavoli della biblioteca dell’università di Bologna. Il misfatto è compiuto da un giovane quanto brillante professore di filosofia, interpretato da Raz Degan, che si rifugia in un casolare del Po lombardo, entrando in contatto con gli abitanti del posto.
Questa, e solo questa, la trama, frutto di uno script che di certo non punta sullo snodo narrativo, sul colpo di scena (come del resto è consuetudine nella produzione di Olmi) ma che contiene una vastissima ricchezza di metafore, di chiavi di lettura possibili.
Il regista scandaglia l’animo umano, il rapporto tra sacro e profano, tra l’uomo e la propria spiritualità, attraverso l’indagine di un animo combattuto. Non è un caso che il custode, l’amante, dei libri deturpati sia un anziano monsignore, lo sguardo offuscato da pesanti cataratte. Come non episodico il soprannome affibiato al professor Degan nella bassa, Gesù Cristo, o il fatto che i suoi amici paesani lo aiutino (in dodici) a costruire la capanna dove va a vivere.
Come questi, i riferimenti ad una semantica religiosa sono molteplici. E nonostante una impossibile univocità interpretativa, Olmi sembra condurci per mano su strade culturalmente iconoclaste, impregnate di un rifiuto non del libro in se, ma dell’utilizzo parziale e pretestuoso che l’uomo ne fa, accompagnate dall’esaltazione di una “semplice cordialità”, come lui la definisce, sganciata dalla retorica e dalla cultura proterva dei saggi.
Discorso chiaro, ma assolutamente discutibile, sintetizzato dalla arida e semplicistica sentenza che mette in bocca al suo protagonista: “C’è più verità in una carezza che in tutte le pagine di questi libri”.
Olmi sembra abbandonare la sua semplice cattolicità legata alla tradizione e all’autorità, per esplorare territori più complessi, densi di un’autodeterminazione religiosa che rifugge dal magistero della cattolicità, per esplorare i territori più complessi e astrusi dell’autodeterminazione del rapporto con il divino.
Non è un caso che Magris, introducendo il bel libro fotografico uscito con il film, si appropri della tematica esasperandola e facendone un uso personale, rafforzando la propria posizione attraverso le citazioni di Bultmann, grande teologo protestante. Il Cristo di Olmi è un Cristo che salva, ma che poi abbandona l’uomo (“Di quell’uomo che chiamavano Gesù Cristo nessuno ebbe più notizia”).
Tuttavia anche da questo punto di vista il film risulta più complicato di quanto una prima lettura non indicherebbe, anche se cede continuamente alle lusinghe della definizione, della presa di posizione inequivocabile.
Olmi, dunque, pur inserendosi a pieno titolo nel solco della sua filmografia, costruisce un film che sul piano della riuscita, come su quello della fattura tecnica e della problematicità, si situa qualche gradino al di sotto dello standard a cui ci aveva abituati.

pubblicata anche qui
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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 01-04-2007 04:12  
questo è tra i migliori film di questa annata.
Altro che sotto un gradino rispetto agli alti film (quali per altro?).. al contrario risente lo splendido peso di una vita, sopporta le difficoltà di essere l'ultimo, combatte con la nostalgia dell'addio.
Un film di rara bellezza e semplicità e complemento di quel "Lungo il fiume", già di per sè film perfetti e finito, riscopre quello sguardo concentrico e centripeto dove la narazione si perde nella grettezza delle immagini, nel loro essere. Ovvero l'intrepretazione del film (non le sue tematiche; non le seghe di quanto cattolico o meno sia Olmi; non quanto simbolico, o didascalici siano i suoi personaggi o le cose da bloccare su cui costruire un significato narrativo comprensibile per tutti quelli che si fermano e vivono la storia come senso ultimo e unico del film) è già compresa nella sua messa in scena, nel suo guardare: dove la condizione relazionale con il mondo che ci circonda include lo sguardo dal quale non ci si può sottrarre.
In questo Olmi è preciso e matematico. e quindi estremamente (all'apparenza) emozionale..
Tutto il resto è fuffa.

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"C'è una sola cosa che prendo sul serio qui, e cioè l'impegno che ho dato a xxxxxxxx e a cercare di farlo nel miglior modo possibile"

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Petrus

Reg.: 17 Nov 2003
Messaggi: 11216
Da: roma (RM)
Inviato: 01-04-2007 10:16  
ma a me la fuffa piace un casino
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kubrickfan

Reg.: 19 Dic 2005
Messaggi: 917
Da: gessate (MI)
Inviato: 05-04-2007 00:17  
sono con petrus verso il basso e ancora più cattivo ...

Cento Chiodi

<u>La voglia di scappare e sparire</u>

Trama :Un giovane professore con la faccia che sembra quella di Cristo, un giorno decide di sparire per cambiare completamente vita e rifugiarsi sulle rive del fiume Po. Qui incontrerà i personaggi della comunità del luogo che gli dimostreranno la loro amicizia e solidarietà...ma un fatto avvenuto precedentemente sembra non voglia concedergli spazio per una nuova esistenza...

Commento: Olmi ritorna a dirigere raccontando una storia rurale ambientata sulle rive del fiume Po, con parecchie parti in dialetto sottotitolato, utilizzando attori non professionisti come nel caso dell'Albero degli zoccoli. Storia padana come quella raccontata anni addietro ( in un contesto del tutto diverso ), ma con una assoluta e totale mancanza di fascino e di vera profondità di racconto. Dopo le suggestive prime immagini della "scena del crimine" con quei volumi infilzati dai chiodi da crocefissione, vengono inseriti nella sceneggiatura personaggi del tutto improbabili ( come quello del preside bikers ), allestendo man mano una vicenda soporifera che ha più il sapore di una cartolina rurale che quello del vero racconto. Panettiere, anziani e postini di buoni e genuini sentimenti fanno da insapore corollario alle anonime gesta di un Raz Degan del tutto inespressivo per dovere di trama ma anche per manifesta incapacità nel dare impulso al personaggio, dotandosi solo della barba per sembrare un novello Cristo fermatosi nelle campagne. Olmi si concede qualche bella scena fotografica ( come quella del ponte e della giacca ) ma evita nella maniera più assoluta che la tenuissima vicenda gialla si espanda, si alzi di tono e abbia delle intenzioni reali di racconto ( e allora perchè proporla ? ) se non una raffazzonata ed esilissima spiegazione nel finale.
Dotati di una videocamera anche delle persone di conoscenze solo discrete di cinematografia potrebbero girare questo che in definitiva è solo un filmino da gita, pieno di omaggi per una terra che ama, che per errore ha infilato il circuito dei cinema invece di poltrire dentro una vhs polverosa del National Geographic. Leggendo i credits ci viene da pensare che abbia usato il film come una palestra artistica per la famiglia Olmi ( presente in più sezioni del film ), ma da un regista del suo calibro non è pensabile che il suo pubblico possa sopportare una simile soporifera ed inutile pellicola documentaristica, mascherandola all'inizio e alla fine di un valore iconografico e morale, quando le due sezioni sono completamente scollegate dal racconto centrale e solo un futile tentativo di creare un alone mistico, dato che la fuga non è conseguente all'atto della crocefissione ma una decisione presa in seguito ad una scelta di vita.
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non solo quentin ma nel nome di quentin...quentin tarantino project
QUENTIN TARANTINO PROJECT

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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 05-04-2007 14:29  
Io sono scioccato dalle banalità scritte in questo post qui sopra...

Secondo me dovrebbe esserci un certo pudore nell'esprimere le proprie considerazioni personali, e da spettatore, su un film come questo.
Detto questo non credo ci sia molto più da aggiungere...
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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 05-04-2007 15:27  
quote:
In data 2007-04-05 00:17, kubrickfan scrive:
sono con petrus verso il basso e ancora più cattivo ...

Cento Chiodi

<u>La voglia di scappare e sparire</u>

Trama :Un giovane professore con la faccia che sembra quella di Cristo, un giorno decide di sparire per cambiare completamente vita e rifugiarsi sulle rive del fiume Po. Qui incontrerà i personaggi della comunità del luogo che gli dimostreranno la loro amicizia e solidarietà...ma un fatto avvenuto precedentemente sembra non voglia concedergli spazio per una nuova esistenza...

Commento: Olmi ritorna a dirigere raccontando una storia rurale ambientata sulle rive del fiume Po, con parecchie parti in dialetto sottotitolato, utilizzando attori non professionisti come nel caso dell'Albero degli zoccoli. Storia padana come quella raccontata anni addietro ( in un contesto del tutto diverso ), ma con una assoluta e totale mancanza di fascino e di vera profondità di racconto. Dopo le suggestive prime immagini della "scena del crimine" con quei volumi infilzati dai chiodi da crocefissione, vengono inseriti nella sceneggiatura personaggi del tutto improbabili ( come quello del preside bikers ), allestendo man mano una vicenda soporifera che ha più il sapore di una cartolina rurale che quello del vero racconto. Panettiere, anziani e postini di buoni e genuini sentimenti fanno da insapore corollario alle anonime gesta di un Raz Degan del tutto inespressivo per dovere di trama ma anche per manifesta incapacità nel dare impulso al personaggio, dotandosi solo della barba per sembrare un novello Cristo fermatosi nelle campagne. Olmi si concede qualche bella scena fotografica ( come quella del ponte e della giacca ) ma evita nella maniera più assoluta che la tenuissima vicenda gialla si espanda, si alzi di tono e abbia delle intenzioni reali di racconto ( e allora perchè proporla ? ) se non una raffazzonata ed esilissima spiegazione nel finale.
Dotati di una videocamera anche delle persone di conoscenze solo discrete di cinematografia potrebbero girare questo che in definitiva è solo un filmino da gita, pieno di omaggi per una terra che ama, che per errore ha infilato il circuito dei cinema invece di poltrire dentro una vhs polverosa del National Geographic. Leggendo i credits ci viene da pensare che abbia usato il film come una palestra artistica per la famiglia Olmi ( presente in più sezioni del film ), ma da un regista del suo calibro non è pensabile che il suo pubblico possa sopportare una simile soporifera ed inutile pellicola documentaristica, mascherandola all'inizio e alla fine di un valore iconografico e morale, quando le due sezioni sono completamente scollegate dal racconto centrale e solo un futile tentativo di creare un alone mistico, dato che la fuga non è conseguente all'atto della crocefissione ma una decisione presa in seguito ad una scelta di vita.




Vedrò il film al più presto. Ma qui sembra si stia parlando di cicciopazzo e non di uno dei più importanti registi italiani che ci sono rimasti.
Un pò di rispetto, capperi...

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kubrickfan

Reg.: 19 Dic 2005
Messaggi: 917
Da: gessate (MI)
Inviato: 05-04-2007 22:32  
non crediate che mi sia divertito ad esprimere le mie opinabilissime impressioni su questo film ( come dice giustamente mattia che le definisce improponibili )dato che Olmi ha per me rappresentato un punto di riferimento nel cinema italiano. Io ho detto che il film è banalissimo e privo di vere attrattive, un canto del cigno sbilenco sin dalla scelta del protagonista. Ma solo un canto del cigno sbagliato. In fondo anche Chaplin errò la sua ultima prova, non per questo i suoi capolavori valevano meno.
Per cui ci tengo a precisare massimo rispetto, ma parlando di questo film non trovo altre deduzioni possibili. ( leggendo petrus una sorta di pallore lo denota pure lui anche se rimane con una visione iconografica valida degna di nota che io proprio non colgo in quanto del tutto anonima ).
Attendo di completare il quadro con lo scritto di Schizo e vediamo se anche altri avranno da dire qualche parere sulla presunta ultima opera di un artista italiano.
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Tristam
ex "mattia"

Reg.: 15 Apr 2002
Messaggi: 10671
Da: genova (GE)
Inviato: 06-04-2007 07:37  
Olmi scende le strade che portano verso il fiume e trova il suo film nella vita quotidiana dei contadini arroccati nelle loro verande, nel vino che bevono, nel pane che spezzano, in sedie lasciate vicino ai gerani per scacciare le zanzare e abbandonate così: rivolte verso l’infinito spazio di un fiume che va lontano e regola un panorama geografico e soprattutto simbolico. Uno sguardo orizzontale, ma fisso, insistente che non conosce nient’altro che se stesso e in questo se stesso trova tutte le sue necessarie risposte.

Il film di Olmi parla di queste soggettive, parla di particolari, di rumori lontani, dei gesti dei pescatori persi tra le fronde che nascondono la vista. Emerge un ritratto rallentato e leggero, capace di volare sopra agli oggetti, per poterli sfiorare con quello sguardo che già Olmi aveva costruito e messo in scena nello struggente “Lungo il fiume” e che qui si completa e si rigenera in una storia oltre il tempo.

Olmi abbraccia (ancora una volta) la rifondazione dello spazio dell’uomo nella sua narrazione: un ritorno a quelle carezze scambiate e a quei caffè, a quel vino bevuti assieme a scapito di una cultura che per Olmi, a causa della pressante necessità dell’uomo di piazzare comunque la verità da qualche parte, spesso diventa cieca e si fossilizza nelle parole mute dei libri, nei quadri dipinti che mangiano l’uomo, in un cinema che non deve proporre verità, ma semmai punti di vista. Quindi intensi e genuini, nonché onesti, pregiudizi.

Olmi quindi abbandona la fiction per sempre, tornerà al documentario, allo strumento più naturale per riavvicinarsi alla materia della vita, e già “Centochiodi” è sbilanciato verso la ricerca di quello sguardo slegato dalla sua struttura narrativa precostituita ed è anzi questo approccio a costruire il film. Un film sacro, trascendentale, privato di parole e di assunti teorici, ma costruito sul puro fare, puro essere, puro esserci: trovarsi in mezzo per guardarsi attorno, dove la condizione relazionale con il mondo che ci circonda include lo sguardo dal quale non ci si può sottrarre. E su questo, inserire una storia che possa appoggiarsi sull’uomo ancora una volta soggetto e ‘vittima’ del luogo in cui vive.

“Chi raccontare?” si chiede Olmi. A quale ultimo personaggio delegare se stesso per chiudere definitivamente il cerchio della sua indagine. Questo ruolo lo ritrova in un uomo di cultura, professore all’Università di Bologna, deciso ad abbandonare un mondo che ha perso contatto con le sue parti più genuine (qui vissute da Olmi con estrema nostalgia) per lanciarsi in una ricerca di se stessi attraverso la semplicità degli altri. Raz Degan è un piccolo Cristo circondato dai suoi tanti apostoli in un estate qualunque e calda sulle rive del Po che dopo aver ucciso (inchiodato) didascalicamente i libri di cui gli uomini si sono fatti schiavi (il prete curvo sui codici, occhi vitrei), abbandona la sua macchina, butta via i suoi documenti e nel fiume ritrova la sua nuova esistenza. Un fiume che è una linea di confine e allo stesso tempo un continente, chiuso dai suoi argini, luogo a cui ritornano gli sguardi, da cui nascono i sogni, e su cui nasce la vita: sociale, ovvero di un gruppo di persone, ma anche individuale, ovvero una casa di pietre diroccata che diventerà elemento primo, per la sua vicinanza all’acqua, di rifondazione. E dove l’occhio cortocircuita, rimbalza, scava la sua circolarità. Guardarsi intorno non è soltanto inanellare una soggettiva con un’oggettiva e costruire quindi una situazione spaziale e relazionale, ma è ritrovare e allo stesso tempo scoprire ciò che si sta guardando. In questo guardare, la relazione con l’uomo si perde. Le inquadrature assottigliano la loro origine di soggettive e vanno ad addensarsi l’una sopra all’altra per espandere (come il legno gonfio d’acqua) la materia narrativa fino a spezzarla.

Olmi in tutto questo ricostruisce la sua personale immagine della vita, cristallizza concetti semplici e popolari per mettere in scena il suo pensiero nei confronti del mondo, come fosse la prima volta a vederlo. Senza pretendere di insegnarci nulla, traccia una strada personale, dove ciò che è bene e ciò che è male si confonde nelle sequenze iniziali per poi abbandonarsi al paesaggio e alla sua indagine (visuale e non morale). La parte del fiume è la parte del silenzio, della riscoperta. Un’epifania muta che si costruisce a tre livelli: filmico, narrativo, fruitivo (per Olmi, per il personaggio di Raz Degan, per noi che guardiamo il film). In questa lunghissima parte, fatta di notti blu, rumori e fruscii, l’immobilità/motilità del fiume, l’espansione di ciò che circonda i personaggi ha qualcosa di più della necessità narrativa di un film di fiction, piuttosto diventa parte indipendente, ma non slegata, in cui fare passare attraverso tutto il film e trasformarlo in una forma ibrida e contemplativa. Ed è forse la contemplazione pura che interessa Olmi. Una contemplazione puramente personale ed intrisa di quel trascendente che non passa attraverso la descrizione di un luogo e di un sentimento interiore, quanto piuttosto “una fluida interazione che crea un ritmo tanto temporale quanto spaziale, e riesce gradualmente ad usare sempre meno uno e sempre più l’altro, trasportando lo spettatore dal mondo a lui familiare verso un’altra dimensione”. In questa prospettiva si pone Olmi e la sua necessità di passare attraverso uno spazio per giungere in un tempo nullificato, di abbandonare la narrazione per ritrovarsi nel mondo (e non in un cinema dove il mondo è visto attraverso se stessi). È quindi ancora di più comprensibile la necessità di passare al documentario per ritrovare quella felicità e serenità (sostanzialmente: ritrovarsi) che Olmi dice di avere perso da tempo.
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Marco82

Reg.: 02 Nov 2003
Messaggi: 924
Da: Lodi (LO)
Inviato: 10-04-2007 22:27  
quote:
In data 2007-04-05 00:17, kubrickfan scrive:
Dotati di una videocamera anche delle persone di conoscenze solo discrete di cinematografia potrebbero girare questo che in definitiva è solo un filmino da gita, pieno di omaggi per una terra che ama, che per errore ha infilato il circuito dei cinema invece di poltrire dentro una vhs polverosa del National Geographic.


vabbè ma scherzavi vero kubrickfan? perchè se no qua non si tratta neanche di banalità ma di vera e propria superficialità. cioè nel quote che ho riportato non stai neanche più parlando del film ma della posizione che gli sarebbe più congeniale. brrr

concordo invece con quanto ha scritto Tristam, soprattutto sull'intensità delle scene da lui riportate, come il suo arrivo nella casa diroccata o l'atto vero e proprio dell'inchiodare i libri. tutti momenti in cui fra l'altro il film si mostra per immagini e basta, zero parole e tutto Cinema.
fantastico veramente

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"sì, ma io ho sei colpi quì dentro..."

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ines49

Reg.: 15 Mag 2004
Messaggi: 376
Da: PADOVA (PD)
Inviato: 10-04-2007 23:37  
Bello, polemico, sensibile e commovente, semplice e profondo.
Tuttavia l'odio per i libri, anche se capisco sia provocatorio, non riesco a condividerlo pienamente.


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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 11-04-2007 11:49  
Visto sabato scorso.
Un film cinematograficamente perfetto, una sorta di testamento spirituale con almeno tre livelli di lettura: quello religioso, quello culturale, quello autobiografico.
Uno dei film più necessari degli ultimi dieci anni.

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Marco82

Reg.: 02 Nov 2003
Messaggi: 924
Da: Lodi (LO)
Inviato: 11-04-2007 14:08  
la parola "necessario" l'ha usata anche il critico di Sentieri Selvaggi!
che anzi mi permetto di linkare se nessuno si arrabbia: recensione
l'ho trovata veramente esauriente
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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 12-04-2007 08:10  
quote:
In data 2007-04-11 14:08, Marco82 scrive:
la parola "necessario" l'ha usata anche il critico di Sentieri Selvaggi!
che anzi mi permetto di linkare se nessuno si arrabbia: recensione
l'ho trovata veramente esauriente




eh ma non hai letto ancora la mia.....

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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 13-04-2007 10:43  
OMISSIS

Prendendo le distanze dalla letteratura, Olmi sottolinea il potere coesivo della musica, la semplicità disarmante della poesia, la forza espressiva della pittura. Ed è la contemplazione ieratica della Naura ad essere la fonte ispirativa di queste arti. In questa adorazione religiosa della natura circostante sembra ricordare il Sacrificio di Tarkovskj, anche’esso testamento spirituale. Ma attorno motociclisti ronzanti come fastidiose zanzare portano il livello di inquinamento acustico oltre i livelli di soglia (così simili ai motociclisti barbari invasori della Roma Felliniana). Il battello con tutte le luci accese assomiglia più all’Atalante di Vigo che al transatlantico Rex sul mare di plastica di Amarcord. Il fiume va lontano e la vita scorre lungo di esso con il suo ritmo incessante. Basta fermarsi per riuscire finalmente a comprenderla, basta prenderne le distanze per afferrarne il senso. Olmi indugia sulle albe e sui tramonti, si prende tutto il tempo per centellinare una meditazione consapevole. Inquadra lo scorrere delle acque, gli argini del Po, le nebbie in lontananza. In queste inquadrature insistite della parte centrale sta il senso della riscoperta dell’eterno, della affiorare dell’infinito in ciò che è apparentemente finito. Il grande silenzio dell’Alba della creazione, il grande silenzio del tramonto dell’Uomo.



E arriviamo al terzo livello di lettura: un cineasta stanco avverte la limitatezza del mezzo espressivo cinematografico. Lo ha esplorato in lungo e largo in una carriera che ha avuto alti e bassi, successi (ricordiamo Cannes e Venezia) e sconfitte, illusioni e delusioni. Si accorge che il suo tempo sta per scadere. La finzione del lungometraggio non gli consente l’approdo alla verità. Abbandona tutto, getta via il telefonino, lascia per strada la BMW. Prima di scomparire, ci lascia una opera testamento, una sorta di messaggio a Futura Memoria (perché la memoria ha un futuro), capace di scuoterci dal nostro torpore, dalle nostre vite imborghesite e sovrappeso. Ci ricorda che la Natura violentata si ribellerà con gli interessi, ci spiega il senso della vita non nelle righe di un libro ben scritto, ma nelle pause tra un respiro e l’altro, nella sospensione tra i battiti del cuore, in un campo lungo dove perdere lo sguardo, in un reclinare il capo abbandonandosi all’altro. E’ stato già detto tutto, è stato già tutto raccontato. Ermanno Olmi sparisce e noi siamo ancora qui, con la nostra tavola imbandita, con la nostra fisarmonica sfiatata, con la nostra voce stonata, ad aspettarlo. Ci canta “Non ti scordar di me” demandando alla memoria la possibilità di perpetuare il suo messaggio. Ci lascia un film che sembra una piccola preghiera laica, una piccola lacrima, come quella di chi sa già che l’attesa risulterà vana e nessuna figura comparirà in fondo alla strada, lungo il sentiero delle candele. Non c’è più la banda. Non c’è più l’orchestra. Tutto il resto è Silenzio.

ULTERIORE APPROFONDIMENTO QUI

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Schizobis

Reg.: 13 Apr 2006
Messaggi: 1658
Da: Aosta (AO)
Inviato: 22-04-2007 16:34  
Invito a leggere l'ultimo numero de I Duellanti: c'è una bellissima recensione di Gianni Canova su Centochiodi

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