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Autore Frammenti di ALEPH
Kieslowski

Reg.: 09 Mag 2005
Messaggi: 1754
Da: Reykjavik (es)
Inviato: 22-06-2006 20:15  
Chi abbia letto con attenzione il racconto delle mie prove, ricorderà che un uomo della tribù m'aveva seguito come un cane fino all'ombra irregolare delle mura. Quando uscii dall'ultimo sotterraneo, lo ritrovai all'imbocco della caverna. Stava sdraiato sulla sabbia, dove goffamente tracciava e cancellava una fila di segni, ch'erano come le lettere dei sogni, che quando stiamo per capirle si confondono. Dapprima credetti che si trattasse d'una scrittura barbara; poi compresi che è assurdo immaginare che uomini che non sono giunti alla parola possiedano la scrittura. Inoltre, nessuna delle forme era uguale all'altra, e ciò escludeva o allontanava la possibilità che fossero simboliche. L'uomo le tracciava, le guardava e le correggeva. Di colpo, come se il giuoco l'annoiasse, le cancellò col palmo e l'avambraccio. Mi guardò, non parve riconoscermi. Tuttavia, tanto grande era il sollievo che m'inondava (o tanto grande e timorosa la mia solitudine) che pensai che quel rudimentale troglodita, che mi guardava dal suolo della caverna, fosse rimasto li ad aspettarmi. Il sole ardeva la pianura; quando iniziammo il ritorno al villaggio, sotto le prime stelle, la sabbia scottava sotto i piedi. Il troglodita mi precedeva; quella notte concepii il proposito d'insegnargli a riconoscere, e magari a ripetere, qualche parola. Il cane e il cavallo — riflettei — sono capaci della prima cosa; molti uccelli, come l'usignuolo dei Cesari, della seconda. Per rozzo che fosse l'intendimento di un uomo, sarebbe stato sempre superiore a quello di esseri irragionevoli.
L'umiltà e la miseria del troglodita mi trassero alla memoria l'immagine di Argo, il vecchio cane moribondo dell'Òdissea, e così gli misi nome Argo e cercai d'insegnarglielo. Ma ogni mio sforzo falli. Arbitri, rigore e ostinazione furono del tutto vani. Immobile, lo sguardo inerte, sembrava non percepire i suoni che tentavo d'inculcargli. A qualche passo da me, era come se fosse remotissimo. Gettato sulla sabbia, simile a una piccola e cadente sfinge di lava, lasciava che su lui girassero i cieli, dal crepuscolo del giorno a quello della notte. Mi sembrò impossibile che non si avvedesse della mia intenzione; Ricordai ch'è fama tra gli etiopi che le scimmie non parlino di proposito, per non essere obbligate a lavorare, e attribuii a diffidenza o a timore il silenzio di Argo. Da quell'immaginazione passai ad altre, anche più strane. Pensai che Argo ed io facevamo parte di universi differenti; pensai che le nostre percezioni erano uguali, ma che Argo le combinava diversamente e costruiva con esse altri oggetti; pensai che forse per lui non esistevano oggetti, ma un vertiginoso e continuo giuoco d'impressioni brevissime. Pensai a un mondo senza memoria, senza tempo; considerai la possibilità d'un linguaggio di verbi impersonali o d'indeclinabili epiteti. Cosi andarono morendo i giorni e coi giorni gli anni, ma qualcosa simile alla felicità accadde una mattina. Piovve, con lentezza possente.
Le notti del deserto possono essere fredde, ma quella era stata un fuoco. Sognai che un fiume della Tessaglia (alle cui acque avevo restituito un pesce d'oro) veniva a liberarmi; sopra la rossa arena e sulla nera pietra l'udivo avvicinarsi; la freschezza dell'aria e il rumore accanito della pioggia mi destarono. Corsi nudo a riceverla. Declinava la notte; sotto le nuvole gialle la tribù, non meno felice di me, si offriva ai violenti scrosci in una specie di estasi. Sembravano coribanti posseduti dalla divinità. Argo, gli occhi rivolti al cielo, gemeva; rivoli gli scorrevano per il volto; non solo d'acqua, ma (come capii dopo) di lacrime. Argo! — gli gridai — Argo!
Allora, con tenue meraviglia, come se scoprisse una cosa perduta e dimenticata da gran tempo, Argo balbettò queste parole: Argo, cane di Ulisse. E poi, sempre senza guardarmi : Questo cane gettato nello stereo.
Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale. Gli chiesi cosa sapeva dell'Odissea. L'uso del greco gli riusciva faticoso: dovetti ripetere la domanda.
Molto poco, disse. Meno del rapsodo più povero. Saranno passati mille e cento anni da quando l'inventai.


Tutto mi fu chiarito, quel giorno. I trogloditi erano gl'Immortali; il fiumiciattolo dalle acque sabbiose, il Fiume che cercava il cavaliere. Quanto alla città la cui fama era giunta fino al Gange, da nove secoli gl'Immortali l'avevano rasa al suolo. Coi suoi resti avevano eretto, nello stesso luogo, l'insensata città che avevo percorsa; sorta di parodia o d'inverso e anche tempio degli dèi irrazionali che governano il mondo e dei quali nulla sappiamo, se non che non somigliano all'uomo. Quella fondazione fu l'ultimo simbolo cui accondiscesero gl'Immortali; essa segna una tappa nella quale, giudicando vana ogni impresa, essi stabilirono di vivere nel pensiero, nella pura speculazione. Eressero la fabbrica, la dimenticarono e andarono ad abitare nelle grotte. Assorti, non-avvertivano quasi il mondo fisico.
Queste cose Omero le narrò, come chi parla con un bambino. Mi narrò anche la sua vecchiezza e l'ultimo viaggio che aveva intrapreso, mosso, come Ulisse, dal proposito di giungere presso gli uomini che non conoscono il mare e non mangiano carne salata né hanno nozione del remo. Aveva abitato un secolo nella Città degli Immortali. Quando l'avevano distrutta, egli aveva consigliato la fondazione dell'altra. Ciò non deve sorprenderci; è fama che dopo aver cantato la guerra di Troia, Omero cantasse la guerra delle rane e dei topi. Fu come un dio che avesse creato il cosmo e poi il caos.
Essere immortale è cosa da poco: tranne l'uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali. Ho osservato che, nonostante le religioni, tale convinzione è rarissima. Israeliti, cristiani e musulmani professano l'immortalità, ma la venerazione che tributano al primo dei due secoli prova ch'essi credono solo in esso, e infatti destinano tutti gli altri, in numero infinito, a premiarlo o a punirlo. Più ragionevole mi sembra la ruota di certe religioni dell'Indo-stan; in tale ruota, che non ha principio né fine, ogni vita è effetto dell'anteriore e genera la seguente, ma nessuna determina l'insieme... Ammaestrata da un esercizio di secoli, la repubblica degl'Immortali aveva raggiungo la perfezione della tolleranza e quasi del disdegnò. Essi sapevano che in un tempo infinito ad ogni uomo accadono tutte le cose. Per le sue passate o future virtù, ogni uomo è creditore d'ogni bontà, ma anche d'ogni tradimento, per le sue infamie del passato o del futuro. Come nei giuochi d'azzardo le cifre pari e le dispari tendono all'equilibrio, cosi l'ingegno e la stoltezza si annullano e si correggono e forse il rozzo poema del Cid è il contrappeso che esigono un solo epiteto delle Egloghe o un detto di Eraclito. Il pensiero più fugace obbedisce a un disegno invisibile e può coronare, o inaugurare, una forma segreta. So che alcuni operavano il male affinchè nei secoli futuri ne derivasse il bene, o ne fosse derivato in quelli passati... Visti in tal modo, tutti i nostri atti sono giusti, ma sono anche indifferenti. Non esistono meriti morali o intellettuali. Omero compose VOdissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l'impossibile è non comporre, almeno una volta, l'Odissea. Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini. Come Cor-nelio Agrippa, sono dio, sono eroe, sono filosofo, sono
demonio e sono mondo, il che è un modo complicato di dire che non sono.
Il concetto del mondo come sistema di precise compensazioni influì largamente sugl'Immortali. Prima di tutto, li rese invulnerabili alla pietà. Ho parlato delle antiche cave che rompevano la pianura dell'altra riva del fiume; un uomo precipitò nella più profonda; non poteva ferirsi né morire, ma lo ardeva la sete; prima che gli gettassero una corda passarono settanta anni. Neppure il destino personale interessava. Il corpo era un docile animale domestico e gli bastava, ogni mese, l'elemosina di qualche ora di sonno, d'un po' d'acqua e di un brandello di carne. Ma non ci si creda asceti. Non c'è piacere più complesso del pensiero e ci abbandonavamo ad esso. A volte, uno stimolo straordinario ci restituiva al mondo fisico. Ad esempio, quella mattina, il vecchio godimento elementare della pioggia. Ma erano momenti rarissimi; tutti gl'Immortali erano capaci di quiete perfetta; ne ricordo uno che non ho mai visto in piedi: un uccello gli faceva il nido in petto.
Tra i corollari della dottrina che non c'è cosa che non sia compensata da un'altra, ve n'è uno di poca importanza teorica, ma che c'indusse, alla fine o all'inizio del secolo X, a disperderci per la faccia della terra. È contenuto in queste parole: Esiste un fiume le cui acque danno l'immortalità; in qualche regione vi sarà un altro fiume, le cui acque la tolgono. Il numero dei fiumi non è infinito ; un viaggiatore immortale che percorra il mondo finirà, un giorno, con l'aver bevuto da tutti. Ci proponemmo di scoprire quel fiume.
La morte (o la sua allusione) rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può esser l'ultimo; non c'è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto d'un sogno. Tutto, tra i mortali, ha il valore dell'irrecuperabile e del casuale. Tra gl'Immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l'eco d'altri che nel passato lo precedettero, senza principio visibile, o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine. Non c'è cosa che non sia come perduta tra infaticabili specchi. Nulla può accadere una sola volta, nulla è preziosamente precario. Ciò ch'è elegiaco, grave, rituale, non vale per gli Immortali. Omero ed io ci separammo alle porte di Tangeri; credo senza dirci addio.


da Gli immortali
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