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Stessa storia: scriviamo! PARTI IN GIOCO-Risultati |
EricDraven
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 02 Lug 2005 Messaggi: 22547 Da: genova (GE)
| Inviato: 22-02-2008 19:05 |
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POSTIAMO QUI SOLO LE STORIE
L'altro topic servirà per i commenti vari.
Ricapitolando, Regolamento:
Incipit breve: (max 4 righe delo spazio per gli Invia messaggio)
Testo massimo 4000 caratteri (spazi inclusi),
non c'è minimo
Scegliere un titolo
Al momento del voto
sarà obbligatorio votare tre persone e farlo in ordine di preferenza. I punteggi saranno di 10, 6 e 4 punti dal primo al terzo.
Ci si può autovotare, ma a fine conteggio i voti saranno resi pubblici (ognuno saprà chi ha votato chi e in che posizione) quindi autovotarsi sarà ancora più triste.
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Prima edizione
da scrivere entro Mercoledì 28/2 compreso
si vota Giovedì 29
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua (mia) vita...
[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 23-02-2008 alle 20:20 ]
[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 28-02-2008 alle 07:21 ]
[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 29-02-2008 alle 00:41 ] |
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sandrix81
![](/forum/images/star_modx.gif) Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 22-02-2008 19:06 |
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AL SICURO
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la mia vita.
E ora quell’albero lo vedo attraverso la grata della finestra (è un bene che ci siano le inferriate, mi piace sentirmi al sicuro da tutto l’orrore che c’è lì fuori), lo vedo ogni mattina e ogni sera, e ogni volta che voglio, dato che non mi muovo mai da qui. Del resto ormai avrei troppa paura anche solo a mettere piede fuori di qui. Chissà che diavolo potrei trovarci, in quella fiera di abomini… no no, qui dentro sono al sicuro, devo stare qui.
Dio quant’era bella.
Arabeschi del destino, a volte sono proprio bizzarri. No bizzarri è troppo vago. A volte sono proprio stronzi. Chi diavolo me l’ha messo in testa di prendermi un cane?
«Ciao».
Mi imbarazzo a salutare gente che magari conosco da anni se la incrocio per strada, figuriamoci una ragazza così bella e che non ho mai visto prima. Me la rivedo in continuazione, che si accende un’Austin Gold a due passi da me (io già impallidito dalla sua sola presenza!) e attacca bottone come si fa normalmente tra persone che si trovano a passare casualmente insieme un po’ di tempo, come in una sala d’attesa o nello scompartimento di un treno.
«…cciao»
«Quel matto là è tuo?»
«Eh? Ah, quel… ssì… sì, è mio. Cacchio ne so che gli ha preso, saranno dieci minuti che continua a correre come un ossesso»
«È proprio matto, ma è bello però. Come si chiama? Vieni bello!»
Sarai matta anche tu allora, ma mattissima.
«Scooter»
«Eh?»
«Il cane»
«Ma che nome è?»
«Eh, viene da un film di Woody Allen, ma in realtà non c’è un cane che si chiama Scooter. È una cosa un po’ contorta, non ti sto a spiegare, se non l’hai visto…»
«Che film è?»
«Manhattan»
«Ah no. Non ho mai visto nessun film di Woody Allen, non mi piace»
…
«Ah io lo adoro. Vabbè… ma il tuo invece qual è?»
«Ah no io non ho il cane»
«Ah ho capito, vieni qui a rimorchiare i bei fustacchioni»
«Seeee! Tipo te, va a finire?»
«Non l’ho detto»
«Ma l’hai pensato però!»
«Diciamo che un po’ ciò sperato»
In realtà tutto quello a cui stavo pensando era che avrei voluto esplorare con la lingua tutto il suo corpo perfetto.
«Bravo, bravo, fai bene, la speranza è sempre l’ultima a morire»
Che l’avrei presa contro quell’albero e l’avrei posseduta fino allo sfinimento, gemendo e urlando di piacere in mezzo al parco e a tutte le anime che lo popolano.
«Ti trovo qui domani allora? Ti aspetto sotto quest’albero eh, mi raccomando!»
«Ciaociao!»
La sera a casa mi sono masturbato. Anche la mattina dopo.
«Certo che ti ho aspettato davvero, una ragazza così bella quando mi ricapita?»
Ora dalla finestra rivedo quel dannato albero appesantito dalla pioggia, e mi ricorda noi che subito dopo averlo fatto sul mio letto ci siamo concessi il bis sotto la doccia.
«Io… non spaventarti, e non metterti a ridere, ma credo di essere già innamorato di te, o qualcosa del genere».
Puttana. Gliene avrei dati ventidue o ventitre, comunque non meno di venti. Mai avrei pensato che potesse avere solo sedici anni. E quella troia di una lolita tanto bella quanto infame ha pensato bene di dirmelo solo dopo essersi fatta scopare per bene.
Ho dovuto farlo, non potevo rischiare che mi rovinasse la vita. E comunque se l’è anche meritato, la puttana.
Ecco che ci aprono. Odio l’ora d’aria, odio uscire di qui.
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Non vorrei mai essere iscritto ad un forum che accettasse tra i suoi moderatori uno come me.
[ Questo messaggio è stato modificato da: sandrix81 il 23-02-2008 alle 16:06 ] |
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liliangish
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 23 Giu 2002 Messaggi: 10879 Da: Matera (MT)
| Inviato: 23-02-2008 00:14 |
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Viola disse
Non molti anni prima sotto quell’albero era cambiata la sua vita. Sorrise al ricordo delle dita di Viola che si intrecciavano, del suo sguardo basso, dei capelli chiari che dalla nuca le scendevano in due bande sulle spalle, mentre gli farfugliava quello che lui già sapeva da mesi.
E’ strano come possa cambiarti la vita sentire dalle labbra dell’altro quello che già conosci. Il pensiero che ti risveglia al mattino e l’ultimo prima di addormentarti.
Adesso era di nuovo autunno, a casa dei genitori di Viola, e di nuovo c’era un morbido tappeto di foglie sotto l’albero. Quel tappeto a cui Viola l’aveva guidato, col cuore battente, senza osare guardarlo negli occhi, oppressa dall’ansia e dall’emozione. E lui – lui che sapeva – non senza ansia si era lasciato portare, e neanche lui osava guardarla.
Poi aveva parlato. La voce sottile, quasi rauca.
“Vieni a casa mia quasi tutti i giorni. Lo so che non sei bravo in matematica, ma penso che ci sia un altro motivo.” Si era fermata. Lui non aveva detto nulla. Allora aveva dato un sospiro, e continuato.
“Sono felice che tu lo faccia. Sono felice quando chiami e mi chiedi se puoi venire, quando arrivi, saluti i miei e Alfredo, e poi vieni a sederti accanto a me, alla scrivania, che è troppo stretta per due, e le nostre ginocchia si toccano. Sono felice… Allora, sì.”
Si era fermata ancora. Si era tirata i capelli dietro le orecchie, deglutendo. Lui tremava, e taceva.
“Non sono felice, adesso. Non sono felice se non quando non sei seduto accanto a me e mi parli con dolcezza. E poi te ne vai. Saluti i miei, saluti Alfredo. Non sono più felice.”
Lui aveva continuato a tacere. Pensava che sarebbe finita, che l’avrebbe detto, che tutto si sarebbe compiuto. Sospirava senza osare farlo.
“E quindi lo sai, io ti amo.”
Lo sapeva. Lo aveva sempre saputo.
Si dice spesso che l’amore è cieco. Pura follia.
L’amore è veggente. Chi ti ama sa. A volte anche quello che tu non sai. Più spesso quello che non vuoi dirti.
Si era irrigidito. Adesso, toccava davvero a lui. Non poteva più nascondersi dietro il silenzio. Ma aveva appena aperto la bocca, che lei riprese a parlare: “Non preoccupartene… Passerà. A me, dico. A te… non so. Voglio dire, non credo che sia una cosa che passi. In fondo chi sta peggio sei tu. Anche se io davvero sono sfigata… A quante altre credi che sia capitato? Farsi soffiare il ragazzo dal proprio fratello.”
Eh sì, Viola era stata proprio sfigata. Ma non le sembrò una sfigata la giovane donna che gli sorrideva venendogli incontro dal viale. “Sono Viola” disse stringendogli la mano “Ti ricordi ancora di me?” Lui annuì, con gli occhi che ridevano. Non era stata bella da ragazzina, adesso era affascinante.
“Alfredo sta arrivando, aveva lasciato il cellulare in macchina” le disse per levarsi d’imbarazzo.
“Non avrei mai creduto che i nostri genitori l’avrebbero accettato. E'pur vero che ti conoscevano da ragazzo... ma ce ne sono voluti, di anni... In confidenza, spero che oggi non ci saranno scenate”
Alfredo arrivò alle sue spalle, con la sua falcata sicura. Le cinse la vita con un braccio, la baciò su una guancia. “Io sono tranquillo, sai, sorellina. In fondo la colpa è stata tua..."
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E mi confondono con le costellazioni dell'abisso le stelle che le zampe delle anatre disegnano nella cedevole mota del pantano.
[ Questo messaggio è stato modificato da: liliangish il 23-02-2008 alle 20:48 ] |
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Deeproad
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 08 Lug 2002 Messaggi: 25368 Da: Capocity (CA)
| Inviato: 23-02-2008 00:18 |
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IL PRIMO BACIO
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua vita. Sedeva accanto a lui, lontana dalle luci e dal frastuono di una città caotica che dalla cima di quella collina s'intravedeva appena. Il tempo sembrava essersi fermato appositamente per concedere loro quell'unico istante di preziosa felicità. Quella stessa felicità che da allora si era sempre fatta negare. Un leggero alito di vento scosse le fronde dei rami e ruppe l'incantesimo di quel ricordo ormai sbiadito. Neppure lei sapeva per quale ragione il destino l'avesse condotta nuovamente su quella verde altura. Non c'era stata nessuna promessa, nessun giuramento d'amore eterno.
Sara si voltò verso la città. Quella città che l'aveva vista crescere, con i suoi rumori e con i suoi profumi; quei vicoli bui che le avevano sempre fatto paura e quel traffico incessante che talvolta, durante la notte, le impediva persino di prendere sonno. Di quella città così viva non restava che un cumulo di macerie. Erano trascorsi quasi tre anni dal giorno del primo bombardamento. Ricordava ogni sensazione, ogni particolare. Sarebbe dovuto essere il giorno in cui avrebbe dato il suo primo bacio. L'aveva sognato tutte le notti fin da quando era bambina. Non desiderava affatto cavalcare un bianco destriero insieme al principe azzurro delle fiabe. E anzi aveva sempre nutrito un'inspiegabile antipatia nei confronti del principe azzurro, con i suoi abiti sempre in ordine e quel suo modo di fare sostenuto e artefatto. Lei sognava un uomo di cui potersi prendere cura, qualcuno che avesse realmente bisogno di lei, perché più di ogni altra cosa non sopportava l'idea di sentirsi inutile. E chi può dire che quel suo compagno di scuola non potesse un giorno rivelarsi l'uomo delle sue fantasie? Si frequentavano solo da pochi giorni e ciò che provavano l'uno nei confronti dell'altra non era certo quell'amore coinvolgente e passionale che puntualmente veniva raccontato nei film. Per dirla tutta non era neppure un amore. Era solo un vago sentimento d'affetto che probabilmente non sarebbe mai sbocciato. Si chiamava Marco. Era un ragazzo molto timido e lei sapeva bene che ottenere quel bacio non sarebbe stato per nulla facile, ma in quel momento lo desiderava più di qualsiasi altra cosa al mondo. E mentre il mondo ansimava e si contorceva su sé stesso lei ne assaporava incurante tutta l'essenza, coltivando l'attesa di un breve istante da ricordare per sempre. Ma del mondo, dei suoi problemi e di tutte quelle tragiche notizie che di tanto in tanto le capitava di ascoltare alla radio dalla voce insulsa di un perfetto sconosciuto a Sara non importava davvero. Niente e nessuno avrebbe potuto impedirle di realizzare quella sua innocente fantasia. Certo anche lei, come tutte le sue coetanee, desiderava che il suo primo bacio fosse la naturale manifestazione d'un sentimento tanto ardito da far tremare le gambe. Ma si era stancata di aspettare. Tutte le sue amiche avevano già consumato quell'esperienza ed era giunto il momento che anche lei si lasciasse andare.
Un altro soffio di vento ricondusse Sara al presente. Fece un profondo respiro e si guardò intorno ancora una volta. Quel piccolo angolo di mondo appena poco distante dalle rovine di una città devastata sembrava essere rimasto intatto, come se la natura avesse voluto in qualche modo preservare i suoi ricordi nella speranza che un giorno potessero riprendere vita. Il cielo era stranamente limpido. Limpido come non lo vedeva da tempo. Limpido come quel giorno, nel cortile deserto della sua vecchia scuola, lontano dagli sguardi indiscreti di tutti coloro che avrebbero potuto rovinare quella preziosa atmosfera. Sara e Marco stavano in piedi l'uno di fronte all'altra. E tutto sarebbe stato davvero perfetto se solo il cielo non si fosse oscurato all'improvviso; se quegli aerei grandi come la notte stessa non si fossero intromessi tra lei e il suo desiderio più grande. Proprio quando le loro labbra furono tanto vicine da potersi quasi sfiorare, un prepotente boato li travolse costringendoli a stringersi l'un l'altra. Un abbraccio caldo e rassicurante come mai si sarebbe aspettata; un abbraccio che tante volte in vita sua aveva ricevuto, ma che mai come in quel momento la faceva sentire al sicuro. Non era il bacio che tanto aveva sognato durante la sua spensierata infanzia, ma era comunque qualcosa che difficilmente avrebbe mai potuto scordare. Intorno a loro il mondo sembrava dover crollare, ma lei sentiva che quel calore l'avrebbe protetta da ogni cosa. Avrebbe voluto vivere quell'emozione per sempre. Poi l'abbraccio si sciolse e i due ragazzi cominciarono a correre più forte di quanto non avessero mai fatto. Lui teneva la sua mano affinché non restasse indietro, mentre lei si lasciava trascinare come se quella mano fosse il suo ultimo appiglio alla vita. Una vita che non aveva mai conosciuto fino in fondo e che sembrava non volerle concedere neppure un banalissimo bacio. Sarebbe finita così? Tra i resti di una città morente e le grida disperate di una folla che fuggiva senza meta alcuna? Continuava a fissare quella mano sempre più umida, che per nessuna ragione al mondo l'avrebbe abbandonata al suo destino. Era quello che sentiva, l'unica sua certezza.
Giunsero infine su quella collina, lontano dai rumori assordanti di una città in fiamme. Entrambi si accasciarono esausti proprio lì, sotto quel vecchio albero. Per qualche istante rimasero seduti in silenzio, uno accanto all'altra, nel tentativo di riprendere fiato. Le loro mani si tenevano ancora, come se nessuno dei due avesse il coraggio di spezzare quel legame intimo e profondo che si era venuto a creare. Trascorse un solo minuto, forse due. Un gemito soffocato da un violento colpo di tosse fece definitivamente svanire in Sara l'illusione di essere riuscita a fuggire da un crudele destino. Voltandosi si accorse immediatamente del sangue che Marco aveva appena rigurgitato. Doveva essersi ferito in qualche modo durante la loro estenuante corsa. Notò che con l'altra mano si teneva stretto un fianco, trafitto in profondità da uno strano oggetto metallico. Sara si chiese come avesse fatto a non rendersene conto subito, ma prima che potesse immaginare una qualsiasi risposta, lui si abbandonò fino a crollare sul prato. Il suo respiro si fece grave ed intenso e lei capì immediatamente che tutti i suoi sogni stavano per infrangersi miseramente sotto il peso di una realtà spietata. Marco aveva impiegato le sue ultime forze per portarla in salvo, lontano da tutto.
Quello sarebbe dovuto essere il giorno in cui Sara avrebbe finalmente dato il suo primo bacio e decise che per nessuna ragione al mondo se ne sarebbe privata. Rivolse un ultimo languido sguardo verso la città e accostò le labbra a quelle del suo ragazzo. Non le importava che fossero bagnate di sangue. Socchiuse gli occhi delicatamente e si lasciò trasportare dai sentimenti. Un bacio umido e caldo. Si chiese quanto di quel calore derivasse dall'emozione di quel primo contatto e quanto invece fosse dovuto al sangue che continuava a sgorgare dalla bocca di colui che aveva sacrificato la sua stessa vita per donarle quel frammento di felicità. Quando sentì che il cuore sotto al suo petto aveva cessato di battere, Sara riaprì gli occhi e si sollevò dal corpo ormai esanime di Marco. Le sue labbra erano tinte di rosso così come il suo vestito. Un tremendo frastuono nelle vicinanze distrusse il silenzio di quell'atmosfera incantata. Non una promessa, nessun giuramento d'amore eterno. Solo un bacio strappato tra la vita e la morte, bagnato di sangue ma intriso d'un sentimento che per un solo breve istante parve simile all'amore. Sara riprese da sola la sua fuga, prima lenta, poi sempre più rapida, giurando a sé stessa che mai sarebbe tornata indietro. O forse si, l'avrebbe fatto, ma soltanto un giorno distante nel tempo.
by Deep
25/02/2008
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Attenzione! I contenuti e le ideologie espresse da questo utente
non riflettono necessariamente la loro immagine allo specchio.
[ Questo messaggio è stato modificato da: Deeproad il 29-02-2008 alle 05:01 ] |
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Mizar81
![](/forum/images/star_modx.gif) Reg.: 29 Ott 2004 Messaggi: 8463 Da: Latisana (UD)
| Inviato: 23-02-2008 00:57 |
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Spero si capisca... c'è una sorta di ambientazione liceale che mi viene dal mio background anime/manghesco, ma non posso farci nulla
Ah, dedico questi praticamente 4000 caratteri alla nostra amata antica Zelkova... ci mancherai
Edit: Ah! il titolo! mmm... Puntata zero. (ehehehe, praticamente me lo sono "visto" mentre lo scrivevo in versione anime...)
Non molti anni prima sotto quell’albero era cambiata la sua vita.
La pianta si era eretta maestosa e solitaria sulla collina per almeno tre secoli, finché l’incuria dei proprietari ne aveva causato la morte e la rovinosa caduta, quella notte. Adesso se ne stava lì, rovesciata nella foschia mattutina, e al ragazzo sembrava solo un enorme cespuglio rinsecchito.
Con un sospiro si fissò i polsi: “ poco importa. Tanto questi qui rimangano…” Sopra di lui un’ombra famigliare attraversò volando le prime luci dell’alba.
“Deve esserci rimasta male anche lei…”
C’era il sole, quella mattina. Invece di andare alla fermata del bus si era avviato lungo il crinale della collina su cui giocava da bambino, arrancando con l’ormai inutile zaino in spalla.
Giunto sotto l’albero, gettò lo zaino sul tronco a mò di schienale e si lasciò cadere tra due grandi radici. Chiuse gli occhi e si rilassò aspettando i primi segnali di sonno, ma un leggero battar d’ali glieli fece riaprire istintivamente.
«Voi non avete la scuola?»
«Ma cosa…?»
«Voi andate a scuola di mattina»
Era la voce di una ragazza. Alzando gli occhi, scorse una sagoma umana seduta tra i rami. Che lui sapesse, non c’era modo di arrampicarsi lassù, eppure quella ragazza era lì.
«E tu? Se sei qui vuol dire che anche tu non avevi voglia di chiuderti in un’aula, no?»
«Noi non abbiamo le aule, però è vero che non volevo stare chiusa»
Il giovane, ancora disteso tra le radici, socchiudeva gli occhi il più possibile ma non riusciva a distinguere molto della sua interlocutrice, nascosta dalle fronde e controluce. “Ma come parla questa?” Però era interessante… «Scendi», osò.
«Non possiamo allontanarci, sali tu»
«Mi prendi in giro? Conosco quest’albero come le mie tasche, non si sale da nessuna parte»
«C’è la porta, noi la usiamo per scendere, ma si può anche salire»
Che fare? Darsi per vinto con quella pazza o andare fino in fondo? Alla fine azzardò: «è chiusa, passami la chiave»
«Vuoi davvero entrare?»
«Voglio salire»
«Non posso darti le mie chiavi, se le vuoi te le faccio»
Incuriosito, il giovane annuì.
«Allora scendo, aspetta»
«Ehi, ma se hai detto che…» Non ebbe il tempo di stupirsi che sentì dietro di lui lo zaino sprofondare e si ritrovò disteso a faccia in su, a fissare sbalordito l’interno cavo dell’albero. Nella penombra riuscì a scorgere un’esile figurina in piedi dietro alla sua testa che, ne era certo, si stava divertendo un mondo per averlo preso alla sprovvista. Si alzò e girandosi verso di lei cercò di abituare gli occhi al buio.
Era bella. Sull’abito chiaro risaltavano i lunghi capelli mori, e due occhi neri lo fissavano maliziosi. Dietro di lei un alone nero e misterioso non permetteva di vedere il fondo dell’albero.
Intuendo le perplessità del giovane, provò a spiegare: «da qui si scende», e indicò vagamente il terreno, «e da qui si sale» alzando il braccio verso l’alto. «Queste», e l’ombra alle sue spalle si mosse in un curioso fruscio come di stoffa al vento «Sono le mie chiavi, ma se vuoi salire o scendere devo fartene di nuove, non posso certo darti le mie. Ma dovrai tenerle per sempre»
Senza esitazione e completamente stregato dalla bellezza della creatura, allungò una mano.
«Entrambe»
Non appena protese i palmi verso di lei, sentì le piccole manine della ragazza sfiorargli i polsi, e poi un dolore lancinante. Ansimando si voltò verso l’apertura alle sue spalle per cercare di vedere cosa gli fosse successo: due piccoli draghi alati erano ora marchiati a fuoco sui suoi polsi.
Dietro di lui, la ragazza aveva fatto qualche passo verso la luce. Le sue ali nere di drago ondeggiarono appena.
«Non potevo darti le mie, no? Comunque ora puoi scendere e salire. Ci sono altre porte, ma questa è la mia preferita, qui non mi trovano e io posso vedere cosa c’è fuori»
Il ragazzo sorrise, essendogli parso di sentire una lieve nota di tristezza nella voce di lei. «Che dici, saliamo?»
Ormai la foschia si era alzata, e il ragazzo si avviò svogliato verso l’autobus per andare a scuola.
«Mi toccherà trovare un’altra porta…»
_________________
Agitandosi in una terra dove la luce della Luna ghiaccia, comincia un'era di distruzione e rinascita...
[ Questo messaggio è stato modificato da: Mizar81 il 23-02-2008 alle 01:05 ] |
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thetourist
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 01 Mag 2007 Messaggi: 7007 Da: estero (es)
| Inviato: 23-02-2008 03:01 |
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3752 battute circa.
mi piace giocare, e gioco.
ma senza nessuna presunzione
1995
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua vita.
La sua vita, fatta di giornate passate a dormire fino al tramonto, e nottate per strada a fare casino insieme a quei due tossici dei suoi amici: Il Secco e Il Ghigno.
Se ne stavano in giro tra il parco, il campo di calcetto e il bar dello Smilzo, l’unico aperto fino alle tre.
Al bar dello Smilzo (che chiamavano così da quando, dieci anni prima, aveva tolto la milza con un cucchiaino da the ad un tizio che quella sera si era azzardato a dire che il bicchiere del suo whisky era sporco di rossetto) c’era Funky, che ogni sabato pomeriggio andava fuori a fare rifornimento, e loro tre erano ottimi clienti.
Entravano e andavano tutti e tre direttamente alla toilette, dove c’era Funky che li aspettava.
Pagavano Funky e pagavano pure la consumazione ché sennò Lo Smilzo cominciava a togliere i cucchiaini dalla lavapiatti.
Poi andavano al campo di calcetto, sempre deserto a quell’ora, d’inverno, e Il Secco cominciava a tirare fuori l’occorrente: carta stagnola di Funky, accendino, cartine, spilletta da balia, sigaretta. E rollava.
E si ammazzavano di canne. E lui quella sera era proprio fatto quando la vide seduta sulla panchina sotto l’albero.
Non l’aveva mai calcolata, mai guardata sotto quell’aspetto.
Mica come Marilena. A quella ci pensava tutte le volte che si chiudeva in bagno, prima di cena. Ripensava alle cose che gli aveva raccontato Lo Gnorry.
(Che poi chissà se erano vere. Ogni volta che si trovava con lui e la vedevano, trovava sempre un modo per cambiare direzione per non doverla incrociare.)
Ma quella sera lei aveva qualcosa nello sguardo che lui, lì per lì, non seppe decifrare.
Ma ne rimase affascinato, tanto che le si avvicinò, fatto com’era, e tentò un approccio.
Lei lo salutò come sempre, sorridendo con gli occhi, mentre lui si atteggiava da duro.
Nella realtà lui non lo era affatto, un duro, anzi. Quando, sei mesi prima, Natascia lo aveva mollato dopo due mesi di strusciamenti dietro le scuole medie, lui aveva pianto per un mese di fila. Ovviamente aveva finto indifferenza, fino a quando l’aveva vista con un altro, e si era messo, alla fine, l’anima in pace visto pure che il tipo era abbastanza grosso e pure incazzoso, pare.
Le chiese cosa facesse lì da sola a quell’ora, e lei rispose che stava aspettando lui, che doveva parlargli di una cosa.
Salutò in fretta Il Secco e Il Ghigno e, emozionato senza sapere bene perché, si incamminò con lei.
Fu una rivelazione sapere che lei era sempre stata innamorata di lui, che in questi anni lo aveva osservato in tutti i suoi movimenti. E conosceva cose che lui nemmeno si ricordava più di aver fatto. Sapeva di magliette che lui ricordava a malapena, e si ricordava di frasi che lui le aveva detto due anni prima.
Mentre gli raccontava di quella volta che a Pasquetta erano tutti insieme al laghetto, e lei avrebbe voluto già da allora parlargli (ma che lui era troppo strafatto e non avrebbe capito), lui si fermò.
La guardò bene per la prima volta, e finalmente capì cos’era quella luce negli occhi che lo aveva così tanto affascinato.
Si baciarono, per la prima volta, e il cielo si fuse con il mare.
Ora, su quella panchina sotto l’albero c’è lui.
Sta aspettando che Il Ghigno passi con la macchina a prenderlo, vanno alla festa di laurea del Secco.
E mentre aspetta, ripensa a quella sera e a tutte le altre sere che sono venute dopo, e alle giornate passate insieme e alle sensazioni provate con lei.
E, se chiude gli occhi e si concentra bene, riesce ancora a sentire l’odore che lei aveva tra i capelli , e a come non è mai più stato felice come allora, come quando era con lei.
Una macchina lampeggia con i fari, Il Ghigno è arrivato.
Porta un’improbabile cravatta rossa, gli sorride, come solo lui sa fare.
[ Questo messaggio è stato modificato da: thetourist il 23-02-2008 alle 11:38 ] |
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gatsby
![](/forum/images/star_modx.gif) Reg.: 21 Nov 2002 Messaggi: 15032 Da: Roma (RM)
| Inviato: 23-02-2008 12:23 |
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Peneo
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua vita. Non faceva ombra, da sempre le foglie di alloro non stringono alcun patto con l’aria fresca e così, a parte la tenera erbetta che germogliava ai suoi piedi, in pochi, forse nessuno, lo avrebbero scelto come complice di pensieri. Fu amore a prima vista, fu Cupido?Forse. Agli occhi degli amici non sembrava normale che l’aver scalfito un po’ di corteccia fosse una ragione così valida da giustificare un ritorno quotidiano sul luogo del misfatto per sincerarsi delle condizioni del ferito. Dopotutto era solo un albero e chissà negli anni passati, forse addirittura il giorno prima, quanti altri cacciatori dall’occhio imperfetto lo avevano infilzato pensando di trafiggere un cervo lì vicino. Ma per lui non era così. Quando quella prima volta vi si ritrovò sotto per raccogliere quella freccia scagliata malamente, qualcosa gli trattenne il fiato. “Noi non vedemmo niente” giurano gli amici a distanza di anni, eppure lo sguardo dell’uomo partì dal basso per finire in alto, e poi di nuovi giù per vedere dove si fossero nascoste le radici e poi di nuovo su per cercare di capire quanto foglie e rami si avvicinassero al cielo e poi di nuovo in mezzo dove il l’esile fusto sembrava dividere in due quel fiume Peneo che scorreva ad un centinaio di metri. “Voi continuate pure, mi siedo qui un po’ a riposare”. Fu l’inizio della fine secondo i suoi da lì a poco diventati ex compagni di caccia, l’inizio della vita per lui che da sempre era parso un tipo riflessivo, uno di quelli destinati a lavorare con il cervello anziché con le mani, ma che nella sostanza si avviava a diventare, come già suo padre, un proprietario terriero condannato dalla rendita a rimanere vicino alle sue proprietà. Mai si era seduto perché voleva farlo, il più delle volte a decidere erano stati i suoi polpacci, l’esigenza di mangiare più comodamente dopo un lungo cammino o la voglia di un po’ di frescura, ma mai aveva pensato di liberare la propria mente e ascoltare la sua voglia di viaggiare. Si stese su quel letto di fili verdi rivolgendo il volto all’azzurro rendendosi conto di quanto fosse stata fino ad allora a lui lontana la felicità. Potremmo ora qui descrivere cosa egli provò, cercando nelle parole quella poesia che gli vibrava la pelle e scuoteva il cuore, senza comunque riuscire a trasportarne l’intensità. Se ad insinuarsi fra i suoi pensieri fosse stato Tolstoj probabilmente a lui avrebbe dedicato quanto scrisse invece secoli dopo ”Come gli sembrò bello il cielo, così azzurro, così calmo e profondo! Com'era fulgido e solenne il sole che tramontava! Come luccicava carezzevole l'acqua del lontano Danubio!E ancora più belli erano i monti lontani che azzurreggiavano oltre il Danubio, il monastero, le gole misteriose, i boschi di pini velati di nebbia fino alle cime. Là c'era quiete, la felicità”. Gli occhi salirono sulle nubi e su quelle cominciò a volare, a tagliare questo pianeta che dall’alto con la punta di un dito copre un’isola intera. Tornò il giorno dopo e il giorno dopo ancora e ogni volta l’albero gli sembrava più magro, ma più rigoglioso, quasi che la vita si stesse riversando in parti uguali su di lui e sul suo immobile compagno. Cominciò persino ad immaginarsi giri intorno al mondo fatti assieme a lui che, è bene dirlo, in questi casi non si presentava come un albero che camminava, ma come un’entità, un sono accanto a tè, mi puoi parlare, ti ascolterò e condividerò con te la tua gioia anche se non mi puoi vedere. Nei suoi sogni ad occhi aperti ogni tanto gli scappava anche una parola a voce alta finché una volta, l’ultima passata laggiù, una fogliolina rotando su sé stessa gli passò accanto all’orecchio, e complice il vento sembrò sussurrare “Voglio venire con te”. Solo allora lui capì. Si alzò e abbracciando quel lungo tronco prese per mano ciò che nel frattempo era diventata una donna, una bellissima donna. “Sono Dafne”, gli disse, ma lui lo sapeva già. “Il mondo ci aspetta”.
Andrea D’Addio
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Vendo divano letto, riletto e anche un po' sottolineato
[ Questo messaggio è stato modificato da: gatsby il 23-02-2008 alle 13:32 ] |
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Chenoa
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 16 Mag 2004 Messaggi: 11104 Da: Vittorio Veneto (TV)
| Inviato: 23-02-2008 17:22 |
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La scoperta
“Non molti anni prima sotto quell’albero era cambiata la sua vita. O meglio, la sua e quella di tutto il paese.” Nonna si bloccò lasciando le parole in sospeso nell’aria. Staccò le mani dal mattarello e se le pulì sullo strofinaccio accanto al lavabo, lentamente. Si voltò a guardarmi, per vedere se la stavo ascoltando. Non voleva sprecare nessuna goccia di quel racconto. La invitai con lo sguardo a proseguire.
“Era il tredici marzo del ‘51.”
“Il giorno della Festa Verde”, la interruppi.
Sorrise.
“Allora non si chiamava così. Festeggiavamo san Leandro e la piazza brulicava di persone. Erano giorni che aspettavamo di sentire, con l’acquolina in bocca, l’odore della carne alla griglia e di polenta cotta. E poi, anche se avevamo solo quindici anni, eravamo impazienti di sfoggiare i nostri vestiti nuovi. Il mio, lo ricordo come fosse ieri, era blu cobalto. C’era del pizzo sulle maniche e sull’orlo della gonna. Era stata la signora Lia a farmelo. Hai già sentito parlare della signora Lia, vero?” mi chiese, sedendosi vicino a me. Ovviamente non sapevo nemmeno chi fosse, ma annuii deciso. Non volevo che divagasse dal racconto principale, com’era sua abitudine. Lessi per un attimo la delusione nei suoi occhi: so che avrebbe voluto cominciare daccapo una nuova storia, per poi intersecarla ulteriormente con altri aneddoti, in infiniti ricami. Questa volta però la obbligai silenziosamente a continuare.
“Sai, non vedevo l’ora di vedere Claudio, quella sera. Ora non lo diresti mai, ma all’epoca era davvero bello. Aveva questi occhi nerissimi in cui ci vedevi la notte più scura, di quelle senza stelle. Noi tutte avremmo voluto stare ore a guardarli. E poi una bocca perfetta, non aveva ancora quella brutta cicatrice. Quella se l’è fatta anni dopo.” Sospirò e si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, come per ricomporsi di fronte all’improvvisa eccitazione del ricordo. “Arrivò presto alla festa, assieme al fratellino. Io lo osservavo da lontano, con le mie amiche, facendo a gara su chi veniva guardata di più. Erano giochi innocenti, c’era più imbarazzo che malizia. Beh, in alcune forse era il contrario. Ad ogni modo la festa cominciò come sempre, la banda scaldava una serata particolarmente gelida, nonostante fossimo a ridosso della primavera. I bambini giocavano tra la folla, i grandi mangiavano seduti su lunghe tavolate e noi aspettavamo che qualche bel giovanotto ci invitasse a ballare. Claudio scomparve quasi subito, comunque. Vidi suo fratello piangere in un angolo, accanto alla zia che muoveva la testa di qua e di là, scrutando tra la gente. Capii subito che stavano cercando lui e guardai anch’io in giro curiosa. Niente. Fermai persino delle persone per chieder loro se l’avevano visto, ma senza risultato.”
“Dopo quanto tempo vi siete accorti dell’incendio?”
“Oh, dopo un paio d’ore. Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo il fumo provenire dalla collina, dall’albero.” Ora la sua voce di fece d’improvviso greve e seria, come per introdurmi nella fase più cupa della storia. “Prima fu uno della banda, a segnare con il dito in direzione del fuoco. Poi ci furono le grida impaurite della gente. Io però non ero spaventata, ero solo tremendamente preoccupata per Claudio. Io gli volevo tanto bene, sai? In fondo, eravamo cresciuti insieme. Quando sbucò da una via laterale della piazza, tutto nudo, ricoperto da una melma verdognola, credetti subito a quello che gli era capitato. Rideva come un ossesso, raccontando del rapimento che aveva subìto. Sua madre gli corse incontro piangendo, tentando come poteva di coprirlo, ma lui saltellava come un insetto, urlando a squarciagola. Erano grida di gioia.”
“Era felice??”, esclamai sgranando gli occhi stupito.
Mi sembrava folle. Tutto ciò si scontrava su quanto avevo letto fino a quel momento sugli incontri extraterrestri.
Possibile che Claudio Monti, da tutti ora considerato il pazzo del paese, avesse in realtà afferrato la pura felicità, quella notte? Dovevo andare da lui e scoprirlo.
[ Questo messaggio è stato modificato da: Chenoa il 23-02-2008 alle 17:24 ] |
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Kubrick5
![](/forum/images/star_06a.gif)
![](/forum/images/avatar/premio Oscar.gif) Reg.: 19 Apr 2006 Messaggi: 5694 Da: San Zeno (BS)
| Inviato: 23-02-2008 17:43 |
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IL FIGLIO DEL VENTO
<<Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la mia vita. In peggio. L'ha distrutta. Cosa pensavo in quel momento? Di essere Dio? Non ho mai spezzato il pane ne moltiplicato i pesci. Di sicuro quella volta non ci sarebbe stato il miracolo. Nemmeno adesso. Immobile davanti alla mia finestra, bagnata dalla pioggia incessante che da giorni cerca di salvare quel che rimane di quell'albero, lo osservo. Penso proprio che la pioggia sia stupida. Ma, cazzo, quell'albero ha qualcuno che pensa alla sua felicità. Io non ho la pioggia, non sono RainMan. Sono un maledetto figlio di puttana che tutti chiamavano il Figlio del Vento. Ora manco più mi chiamano.
Quella notte correvo come sempre e l'albero era il punto di stretching. L'auto purtroppo ha sbandato, colpendomi in pieno le gambe e schiacciandole contro il tronco e costringendomi sulla sedia a rotelle per il resto della mia vita. Da allora conto i giorni che mi restano alla mia morte fisica, perchè quella spirituale già se n'è andata. Proprio quella notte. Quell'albero è diventato il simbolo della mia morte. Ti odio.
Ma ecco, stanno arrivando le ruspe; e tra poco morirai pure te. >>
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Emancipate yourselves from mental slavery;
None but ourselves can free our minds.
Have no fear for atomic energy,
'Cause none of them can stop the time.
How long shall they kill our prophets,
While we stand aside and look?
[ Questo messaggio è stato modificato da: Kubrick5 il 23-02-2008 alle 17:45 ] |
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Mayapan
![](/forum/images/star_05a.gif) Reg.: 17 Nov 2006 Messaggi: 932 Da: milano (MI)
| Inviato: 23-02-2008 18:31 |
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con un po' di sforzi sono riuscito a far rientrare la storiella nei limiti, 3992 se word non sbaglia.
Un amico è amico per sempre
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua vita.
Il parco del paese era dominato da un’enorme olmo. Era estate e l’olmo con la sua ombra costituiva il luogo ideale per una sosta.
Il suo tronco, circondato da un panchina in legno, dava l’idea di una grande solidità.
Su un lato della panchina era seduto il signor Alf, con in mano un libro, che leggeva con interesse: gli occhi erano rivolti verso le pagine e la bocca mostrava un sorriso appena accennato.
Come ogni mattina passava del tempo lì prima di aprire la biblioteca dove, da volontario, trascorreva da anni le giornate. Ad un tratto le sue labbra si aprirono, gli occhi si alzarono e si rivolsero al giovane Ernest, che passava di lì in bicicletta. Il ragazzo si fermò e prese posto sulla panchina, poggiando la testa all’enorme tronco dell’olmo.
I due si conoscevano di vista, tutte le mattine Alf vedeva il giovane passare diretto a scuola.
‘Ciao ragazzo, come mai qui? Avrei una domanda per te. Gli anni ormai iniziano a farsi sentire, che ne diresti di darmi una mano in biblioteca?’
Non aveva mai prestato così tanta attenzione a qualcuno che parlava. Quella mattina le parole di Alf erano entrate indisturbate nella testa di Ernest e ci erano rimaste. L’espressione del ragazzo cambiò appena Alf iniziò a parlare. Rivolto lo sguardo verso Alf, il giovane annuì e sorrise.
I due rimasero per qualche minuto lì in silenzio, su quella panchina, guardandosi negli occhi.
Era come se Ernest avesse aspettato quella domanda da anni, ma, pur vedendo Alf tutte le mattine, non si era mai permesso di dirgli nulla. Si limitava a salutarlo dandogli il buongiorno.
In quel momento pensò con nuova luce ai restanti giorni della settimana, del mese e ai prossimi anni che lo attendevano. Qualcosa di straordinario gli era appena accaduto.
‘Conti su di me, signor Alf’.
Senza dire altro se ne andò con la sua bicicletta e la speranza di dare un nuovo significato alla sua vita.
Già, perché Ernest ammirava il signor Alf. Non lo conosceva ma lo ammirava per quello che faceva, per il tempo che dedicava alla biblioteca e a tutte le persone che anche solo per poco, anche solo per una volta, erano lì in cerca di un libro. E sapeva che da lui avrebbe potuto imparare molto.
Lo aspettava un’altra giornata di scuola.
La scuola media del paese, era per lui un posto assolutamente anonimo.
Vedeva i professori come dei perfetti estranei, mai un minimo segno di interesse verso la sua vita. Mai una domanda:’Come stai?’ ‘Sei sereno?’ Nulla. Anche nei compagni di scuola Ernest non trovava dei veri interlocutori. Si sentiva un pesce fuor d’acqua, lui e i suoi coetanei erano troppo diversi. Loro erano molto lontani dall’idea di amici che aveva Ernest. E forse era troppo immerso nei suoi pensieri per comprendere appieno i meccanismi che regolavano i rapporti fra i suoi compagni.
Ma le mattine a scuola da quel giorno passavano più in fretta con in testa due sole cose, il signor Alf ed i libri.
Da quel momento i suoi pomeriggi, sarebbero stati piacevolmente pieni.
Il libro era ormai diventato l’amico con la A maiuscola, quello del quale non puoi fare a meno, quello che porti sempre con te. Quello che se non c’è torni indietro a prenderlo perché senti che ti manca qualcosa. E poi c’era Alf, il grande Alf.
A Ernest non solo piaceva leggere, ma soprattutto piaceva il modo in cui Alf sapeva farlo appassionare alla lettura. Già, perché lui li aveva letti tutti i ‘suoi’ lìbri, non osava mettere un libro sullo scaffale prima di averlo letto ed Ernest era solito farsi consigliare da Alf. Non solo in materia di libri, a dirla tutta. Per lui era diventato quasi un fratello maggiore o ‘l’amico più grande’ a cui chiedere qualsiasi cosa.
Due amici veri per Ernest, Alf ed il libro. La sua vita da quella mattina al parco era cambiata. Non era più solo. C’era il vecchio Alf con lui e la convinzione che i libri non lo avrebbero mai abbandonato. Qualsiasi cosa sarebbe successa.
In fondo un amico è amico per sempre.
_________________ [ ...il suo salvataggio è un viaggio in luoghi lontani ] |
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AtIpIcA
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 04 Gen 2007 Messaggi: 4177 Da: Milano (MI)
| Inviato: 24-02-2008 13:16 |
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Pelle d’ebano
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la mia vita.
Era diverso tempo che non ripensavo più a quel momento. Mi stupii di questo visto che rappresentava il motivo per cui mi trovavo ancora li, il motivo per cui avevo deciso di fare quel lavoro mettendoci l’anima.
Quella scena mi riaffiorò alla mente all’istante, nitida e precisa, come se fosse capitato solo il giorno precedente.
Mi ero staccato dal gruppo per fare quattro passi e rilassarmi almeno cinque minuti. In quella situazione non era per niente facile. C’era costantemente da fare, mai un attimo di pace, mai una nottata tranquilla in cui appoggiare la testa senza pensieri e addormentarsi profondamente.
Come ogni giorno, il sole era alto in cielo e picchiava sulla mia testa, inutilmente coperta da una specie di cappello che mi aveva regalato un bambino qualche giorno prima. Il caldo era impressionante e il sudore mi si appiccicava addosso dandomi una sensazione di soffocamento insopportabile. Mi guardai intorno, aprii bene le narici per odorare l’aria e percepii qualcosa di fresco e piacevole, come il profumo del mare. Non era possibile: il mare, l’oceano, era lontano centinaia di chilometri. Decisi di prendere comunque la direzione da cui proveniva e in un attimo mi trovai in una radura dove scorreva un canale, probabilmente creato per l’irrigazione dei piccoli campi di mais. Corsi sulla sponda e immersi le mani nell’acqua resa tiepida dal calore. Me la gettai addosso più volte, sperando di lavare via il sudore che mi ammantava, ma era solo un rimedio temporaneo. Sentii però, per un breve momento, una sensazione rinfrescante data dalla lieve brezza che, stranamente per quelle parti, stava tirando.
Fu in quel momento che alzai gli occhi e la vidi.
Una ragazzina in lontananza stava dondolando sulle ginocchia sotto un albero di Acacia. Aveva la testa china su qualcosa che teneva tra le braccia, ma non riuscii a capire di cosa si trattasse. Le lunghe treccine nere le scendevano lungo il petto e le nascondevano il volto. Mi avvicinai e sentii che stava singhiozzando. Avrà avuto sì e no 13 anni. Era così magra che le ossa sporgevano in tutto il corpo e la pianta chiara dei suoi piedini risaltava la sua pelle del colore dell’ebano. Indossava solo una gonnellina di paglia e una lunga e ingombrante collana di perline.
Ora ero abbastanza vicino. Sentivo solo un pianto, quello della ragazzina, il neonato che portava in grembo era immobile, in silenzio. Corsi da lei e istintivamente le strappai il bambino dalle braccia. Lei prese ad urlare più forte e disse qualcosa in wolof che non capii guardandomi con i suoi grandi occhi neri disperati. Provai a fare una leggera pressione sul piccolo sterno del bimbo, ma ero troppo inesperto. Senza pensarci troppo corsi verso il villaggio con quel corpicino tra le braccia e la ragazzina che mi inseguiva. Aveva smesso di gridare. Forse aveva capito che volevo aiutarla, ma sentiva la mia paura, la mia frustrazione e tremava. Portai il bambino al mio accampamento e il medico, quando mi vide arrivare trafelato, mi corse incontro. Mi prese il bimbo dalle braccia, lo appoggiò su un lettino e cercò di rianimarlo. Ci provò diverse volte, ma ormai non c’era più niente da fare. Solo in quel momento osservai meglio la ragazzina e mi resi conto che perdeva sangue. No, non era solo sangue, c’era qualcos’altro. Placenta. Aveva appena partorito. Quel bambino appena nato era suo figlio. Come avevo fatto a non realizzarlo prima? La ragazzina aveva gli occhi vitrei, lo sguardo perso. Sembrava osservare il lettino, ma in realtà fissava il vuoto. Non era una bambina spensierata, era una giovane donna che precocemente imparava ad affrontare le ingiustizie della vita. Abbassò il volto e svenne. La presi subito in braccio e l’adagiai dolcemente su un altro lettino. Sentii il sapore salato delle lacrime che mi rigavano il volto. Fu in quel momento che decisi cosa dovevo fare. Non sarei ripartito dopo le 3 settimane stabilite. Dovevo rimanere li. In Senegal.
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le cose belle non hanno alcun valore se non racchiudono un significato personale profondo
[ Questo messaggio è stato modificato da: AtIpIcA il 24-02-2008 alle 13:48 ] |
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Quilty
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 10 Ott 2001 Messaggi: 7637 Da: milano (MI)
| Inviato: 24-02-2008 17:40 |
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UNA DONNA IN PERICOLO
Non molti anni prima sotto quell ' albero era cambiata la mia vita...
Prese il foglio di carta sul quale aveva abbozzato quelle prime stupide parole , lo appallottolò e lo gettò nel cestino. Era un incipit disastroso! Ma come gli era potuta venire in mente una simile , sciocca idea? Un diario con le sue memorie, fanculo. Possibile che fosse ancorato a quei vecchi ricordi del passato, quella persistente e devastante nostalgia che gli trapanava il cervello? Quante inutili smancerie e poi quel futile rivangare ancora e ancora… sotto quell' albero era cambiata la sua vita?...pietoso, veramente pietoso … ma se era un albero del CAZZO! Un fottutissimo albero di merda! E sotto quell’arbusto c’era stata anche lei, la traditrice, la sciacquetta svergognata per cui aveva perso la testa; dio mio uccidila cazzo uccidila subito uccidila uccidilaaa uccidi quella troia di merda falla fuori una volta per tutte sei hai veramente le palle spaccale quella faccia da culo sei un uomo o che cosa dai non fare ancora il frocetto tirale una bella cannonata in quella zucca vuota falle schizzare fuori i suoi quattro neuroni figlia di puttana TI AMMAZZO MALEDETTA PUTTANA!!!
Si alzò di scatto facendo cadere violentemente la sedia alle sue spalle.
Ma quando si girò rimase impietrito.
Gli ci vollero almeno una quindicina di secondi per cominciare un poco alla volta a realizzare che quella grandissima zoccola era riuscita a liberarsi dai lacci che le aveva accuratamente legato ai polsi e alle caviglie. E ora gli si presentava proprio lì d’innanzi , la Magnum puntata verso il suo volto. Un occhio tumefatto , i capelli intrisi di sangue, il labbro inferiore violaceo , un ghigno malefico che lasciava intravedere lo squarcio all’interno della sua cavità orale, i denti restanti frantumati e lei, la baldracca, era ancora lì in piedi e minacciosa di fronte a lui. Ok calmati ora, devi escogitare qualcosa prima che quella mignotta ti ficchi un proiettile in testa L’ ho bastonata per bene, non sta nemmeno in piedi non vedi che trema è esile come un fuscello ma dico sei deficiente cazzo ma non sembra neanche vera allora finiscila una volta per tutte scatta in avanti ora cazzo scatta scatta scatta scatta! ScatTA! MALEDETTA TROOOO
Un lampo nella notte.
Un bagliore della durata di un infinitesimo di secondo e tutto era finito.
I vicini si affacciarono timidamente alle finestre e qualche impavido addirittura varcò la soglia di casa e uscì in giardino. La polizia arrivò dopo qualche minuto, poi giunse l’ambulanza. La porta fu sfondata a colpi di rivoltella e gli infermieri trovarono all’interno i due cadaveri che giacevano uno accanto all’altra. E mentre un capannello sempre più fitto di persone si radunava ,nonostante l’ora tarda, la vecchia comare del quartiere teneva banco e raccontava di quando lei lo aveva lasciato solo come un cane , alla scoperta improvvisa della malattia. Una mancanza di sensibilità davvero raccapricciante, commentava un distinto signore vestito con cappotto e pantofole ai piedi. E come si era poi affrettata a trovarsi un altro amante, quasi come se lui non fosse veramente mai esistito! Santo Cielo! esclamò ancora una donna vestita di nero, la sua bambina di due anni stretta tra le braccia. E mentre tutti un poco alla volta si allontanavano dal luogo nefasto e rincasavano, potevi ancora udire di come la natura si rivelasse nelle sue sfaccettature più impreviste, curiose e crudeli , mentre un gufo bubolava dall’ultimo ramo della spoglia e vecchia quercia in fondo alla strada e il vento lentamente trascinava via con sé la notte e il cielo stellato.
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AlZayd
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 30 Ott 2003 Messaggi: 8160 Da: roma (RM)
| Inviato: 24-02-2008 21:53 |
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Il regalo di Natale
Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la sua vita
“Sarebbe perfetto, ho controllato le date.., ma che bel candeDario!”, disse Clara mentre osservava con lampi di luce negli occhi le candele sparse nell’accogliente bistrot di Montmartre.
(Parigi in inverno è tutta una fascinazione, se la corteggi si apre al tuo sguardo come una nacchera)
Seguì un beve silenzio. Un sorso di vino rosso, Leo corse con il pensiero altrove. “Ci mancavano solo i lapsus”, rimuginò tra sé e sé aspirando nervosamente la gitanes con carta di mais. “Ma forse dovrei tenere a freno la mia gelosia”. Riprese a parlare con finta disinvoltura del viaggio a Praga. “Si, meglio partire a giugno…”. Detestavano gli affollamenti estivi.
(Parigi non ti lascia mai per strada, di notte. C’è sempre un ultimo metrò)
In albergo – albeggiava -, lei con gli occhi d’acqua, Leo tirò fuori quel cocente rimorso che non diminuiva. I fumi dell’alcol e della folata notturna piena d’incanti (e di gelo) erano svaniti; l’asettica realtà della stanza non giocava a suo favore. Montava il sospetto che da qualche tempo gli corrompeva il senno e umiliava sua moglie. “Ma vuoi metterti in testa che è solo un amico, uno dei pochi colleghi con cui scambio volentieri quattro chiacchiere?”. Leo seguitava ad incalzare la donna, rinfacciandole quando, dopo il lavoro, si fece accompagnare da lui al negozio di tende. “Riflettevo sulle date della vacanza, pensavo al calendario.., al candelabro del ristorante, e mi è uscita quella buffa parola, ecco!”, replicò Clara con malcelata stizza.
“Senza contare tutte le volte che ti ha accompagna alla fermata dell’auto con quel cesso di motorino”, ribatteva l’uomo.
Giunse il momento della “piccola morte” e dell’intenso piacere che diradò le ultime ombre e con esse i cattivi pensieri. Tremolavano nella sera le prime luci di Piagalle quando Clara e Leo ripresero le vie della città immersa in un pallida e romantica nebbia.
La luce smorta di quella grigia giornata pre-natalizia filtrava a stento attraverso l’”odiato” drappo appeso nell’ampio salone. Casa, dolce casa - finalmente! - dopo un lungo ed estenuante viaggio in treno. Bisognava pensare alla cena della vigilia, quell’anno sarebbe toccato a loro invitare i soliti parenti e qualche amico intimo.
“Ha chiamato Irene” - disse Leo a Clara di ritorno dalla spesa - “voleva sapere del viaggio, salutarci”.“Ciao Irene.., cara.., tutto bene, ti racconterò.., tu come stai?” Sotto lo scroscio della doccia Leo un udiva più nulla. “Quella fissazione di Leo di cui ti dissi.., ogni tanto riaffiora.., ma sembra superata, almeno spero.., allora a presto, da noi per la vigilia!” Furono le ultime parole di Clara alla sua più cara amica prima di riagganciare il telefono.
Fervevano i preparativi in cucina, quella sera del 24 dicembre, 19.., lontano ricordo di quando la vita di Clara cambiò in un attimo. L’allegra compagnia riempiva la casa di frastuoni. La cena fu servita, giunse il momento di aprire i regali ammucchiati sotto l’albero di Natale. Ovazioni per l’idea più originale, piccole grida di gioia. Clara prese a scartare il pacchetto che il marito sorridente le aveva passato. Nella febbrile attesa gli occhi della donna emanavano la stessa luce felice di quella notte al bistrot parigino. Fu all’improvviso che il suo bel volto eccitato si trasformò in una cerea maschera di dolore. Abbandonò il salone. Lui la seguì. Con un gesto privo di volontà, senza convinzione, Clara passò a Leo il biglietto trovato nella scatola, insieme al “regalo”. Leo conosceva quel testo. Impietrito, non lesse oltre le prime righe: “Mi sei molto mancata, durante la vacanza. Questa notte vorrei averti per me...”.
Nel salone, le luci intermittenti dell’albero di Natale, un vero abete, erano un riverbero di colorata illusione, mentre Clara vomitava nel water la sua infinita angoscia.
Irene era andata via, a sipario calato. Il “suo” regalo giaceva a terra, abbandonato in quel mucchietto di incarti stracciati.
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oldboy83
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 06 Gen 2005 Messaggi: 4398 Da: Mogliano (MC)
| Inviato: 25-02-2008 00:56 |
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VIVERI E... VIVERE
Non molti anni prima sotto quell'Albero era cambiata la sua vita.
Gigi s’era trasferito da qualche anno nel centro del paese. Un ragazzino di campagna come lui, abituato alla sveglia del gallo nell’aia, e alla freschezza delle primizie raccolte dal nonno di prima mattina, non aveva accettato l’idea di abitare in paese. Viveva controvoglia, non stringeva amicizie, non usciva a giocare.
Niente.
Pensava solo alla festa e all’Albero, che, da lì a pochi giorni, avrebbe guarnito la piccola piazza su cui si affacciava ogni mattina.
Amava l’Albero perché gli ricordava gli anni trascorsi nella casa del nonno, e i pomeriggi passati ad arrampicarsi tra i rami della secolare quercia su cui aveva costruito un piccolo ma accogliente rifugio.
I festeggiamenti si avvicinavano sempre più, e gli anziani del rione ripetevano come ogni anno la stessa cantilena: “Ah, l’Albero del ’60 è stato sicuramente quello più difficile da scalare”. “E perché quello del ’65, no? Ti ricordi quante belle prelibatezze c’erano appese?”
Gigi ascoltava quelle chiacchierate dalla sua finestra, e delle scene di festa mai vissute gli passarono veloci davanti agli occhi. E lo emozionarono. Da lì a qualche giorno anche lui sarebbe divenuto protagonista della storia dell’Albero, ricordato negli annali tra i sampietrini di quel piccolo foro.
Ed eccolo, il fatidico giorno. Il paese in festa vestiva dei panni nuovi, puliti. Le piazzette divennero teatri all’aperto, le strette e umide vie mercatini e ogni tinello osteria.
“Venite siore e siori, venite a vedere il fantastico gioco del paese! L’Albero della Cuccagna vi aspetta con i suoi premi e con i suoi vincitori!”. La buffa voce maschile si diffondeva gracchiante per le vie del borgo. Gigi era sotto l’Albero che si ergeva nel centro esatto della piazza. In cima, contro ogni aspettativa popolare, quest’anno c’erano quattro fiaschi di rosso, sei salami di quelli buoni, cesti con leccornie varie e, nel punto più alto, due prosciutti.
Enormi.
Negli annali nessuno ricordava prosciutti come quelli.
Un paio di signori si avvicinarono al palo e in breve tempo divenne scivoloso e unto. Gigi non immaginava di trovare dei premi così pesanti da portare giù. Non fece in tempo ad escogitare una tattica, che la gara iniziò. Le cinque squadre erano incitate dalle rispettive tifoserie, che iniziarono a farsi sentire.
Le prime ebbero pochissima fortuna: la salita in alcuni punti era davvero ostica, il grasso aveva attecchito al palo e proprio non si saliva. La quarta squadra aveva un ragazzino rapido e leggero, che però riuscì a portare a casa solo un fiasco di vino. La squadra di Gigi recuperò un paio di salami, ma con enorme difficoltà.
Dall’alto, nella loro enormità, i due prosciutti sembravano volesse sfottere giocatori e pubblico. Immobili, neanche il leggero vento li scalfiva.
Era arrivato il turno di Gigi, asso nella manica della squadra. Gigi era leggerissimo ed esile, ma di un’agilità inaudita. Al fischio dell’arbitro corse verso il palo con una grande ricorsa, saltò e iniziò a salire come una lucertola. Il grasso all’inizio dell’Albero era poco e mal distribuito, ma mano a mano che avanzava la salita si faceva difficoltosa. Riuscì, scivolando diverse volte, ad arrivare in cima: con una mano poteva toccare l’ultimo cesto, ma non riusciva a prenderlo. Pensò al nonno, alla vita che aveva fatto in campagna, e a quella che stava vivendo in paese.
Voleva un rivincita.
Voleva ricominciare a vivere.
Salì ancora un po’, incrociò le gambe intorno al palo e si sporse verso il cesto, che fu subito suo. Se lo mise a tracolla e con un ultimo scatto raggiunse i due sprezzanti prosciutti. Aprì con i denti le cordicelle che li tenevano attaccati e se li mise intorno al collo, come due ciondoli.
La forza di gravità ebbe la meglio sui suoi muscoli ed iniziò a scivolare verso il basso, trascinato dai trofei agguantati. Si strinse forte al palo, e arrivato a terra, ai piedi dell’Albero, il pubblico andò in delirio.
Era il nuovo eroe del paese.
E della sua vita.
_________________ Una sola cosa è certa: da questa vita non ne usciremo vivi. |
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eltonjohn
![](/forum/images/star_06a.gif) Reg.: 15 Dic 2006 Messaggi: 9472 Da: novafeltria (PS)
| Inviato: 25-02-2008 15:30 |
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Non molti anni prima sotto quell'albero era cambiata la mia vita, me ne stavo piacevolmente disteso all'ombra di un albero di mele insieme ad un mio anonimo compagno di studi nel verde della campagna inglese, credo se non erro, fosse il timido e introverso James Winters armato come al solito di quaderno e matita, pagine e pagine di appunti e schizzi, idee improvvise ed opinioni buttate istintivamente sulla carta come era sua abitudine, paginate di filosofia e sogni che spesso stentavo a comprendere, o non volevo.
Il sole era alto e caldo, le nostre giacche nere da studenti usate con non curanza come cuscini sopra le nodose radici di quell'albero denso di pomi rossi più che maturi, molti dei quali già sparsi a decine sull'erba circostante, api e mosche ronzavano senza sosta senza infastidirci più di tanto.
Il profumo dei fiori di campo e delle erbe aromatiche si confondeva con il tanfo di escrementi di quadrupedi, in lontananza le risate dei nostri compagni di studi meno timidi, intenti a corteggiare le compiaciute figlie dei fattori circostanti, ma noi ci sentivamo forse scioccamente superiori (o era un alibi) trovando il nostro distacco più consono al nostro status di privilegiati rampolli da acculturare.
Osservavamo pigramente le mele a terra e quelle che ogni tanto cadevano dai rami con rumori sordi attutiti dall'erba alta, a volte ne raccoglievamo qualcuna, scartando con cura quelle troppo mature e molli e quelle con evidenti segni di bacatura in superficie, ne assaporavamo la dolce e allappante polpa dopo averle strofinate con non curanza contro le maniche della camicia.
- Sai James, quelle dell'altr'anno erano più dolci, è una mia impressione?
- No, francamente non ne trovo tutta questa differenza, e poi a distanza di un anno chi se ne ricorda...
- Che sia colpa delle piogge più abbondanti?
- Non saprei...
- Tu non ne mangi?
- Non mi vanno più
Sempre così restio anche nei confronti delle più banali conversazioni il vecchio James Winters, per quanto tentassi di dare inizio ad una parvenza di dialogo non riuscivo a strappargli che brevi monosillabi, per lui esistevano solo il suo quaderno pieno di fantasticherie e la sua matita.
- Hai sentito mai parlare di quello strambo colono delle Americhe che gira per il continente seminando piante di melo in lungo e in largo? Sembra che così facendo voglia tracciare una pista che gli altri coloni possano percorrere per espandersi ad ovest..
- A che proposito?
- Beh, sembra che queste piante di melo in sequenza, soprattutto quando fioriscono, forniscano ai coloni una sorta di via da percorre verso l'interno più selvaggio e inesplorato di quelle lande...
- Ma davvero?
- Già. Incredibile vero! Lo hanno soprannominato Giovannino Semedimelo o qualcosa del genere
- Gli americani sono strambi, dev'essere la diversa alimentazione, troppo ricca di granturco
- Può darsi
Altra pausa di silenzio di circa dieci minuti, ritento con altro argomento.
- Se ci pensi è incredibile, tutte le nostre sventure di esseri umani si possono ricollegare ad una di queste mele..
- Puoi essere più chiaro?
- Nella Genesi c'è scritto che Eva con una di queste corruppe Adamo causandone la cacciata dal Paradiso terrestre, non rammenti?
- E tu ci credi ancora?
- Non è che ci creda, ma...
- Senti, concentrare tutti i problemi dell'umanità all'interno di un frutto di pochi grammi di peso non ci fa onore, non ti pare? Insomma come studenti di scienze dovrebbero essere altri i quesiti che dovremmo porci anche semplicemente osservando una di queste mele, non trovi? Tutte quelle metafore bibliche piene di mele, serpenti, arche zeppe di animali dovremmo lasciarle alla gente comune che sa a mala pena leggere qualche passo della Bibbia...
Era già un piccolo progresso, finalmente James si stava addentrando all'interno di un argomento che lo interessava, o così pareva, aveva posato a terra quaderno e matita cominciando a disquisire gesticolando.
- Ad esempio, ti sei mai chiesto perchè questi frutti cadono a terra dai rami?
- No....perchè?
- Avanti,prova a chiedertelo!
- Non saprei...forse perchè sono troppo maturi? Forse perchè sono aumentati di peso?
- Si anche per quello, istintivamente tendiamo a spiegare i fenomeni più banali nel modo più ovvio, ma non credi che ci sia dell'altro?
- No...cioè?
- Non hai come l'impressione... è difficile da spiegare, che ci sia come dire...una forza, delle braccia invisibili che staccano i frutti dal ramo e li portino a terra?
- Una forza?
- Si, più o meno la stessa che ci impedisce di volare, che ci fa cadere al suolo quando siamo ubriachi di birra o di sidro, che ci costringe a costruire delle impalcature per riparare un tetto, che ci induce a rallentare la marcia per non cadere quando discendiamo una collina molto ripida...insomma una forza così
- Affascinante, quindi intendi metaforicamente, che ci siano delle braccia invisibili che...insomma, ci tengono attaccati al terreno!
- Si,una cosa del genere, come se un gigantesco essere invisibile nascosto al centro di questo mondo tendesse a trascinare tutte le cose verso se stesso.
Rimanemmo muti per qualche minuto, ripensavo alle stranezze appena dette da James, li per li non tanto dissimili da quelle scritte qua e la nella Bibbia, anche se in effetti molto più dense di logica di un qualche Mar rosso che si divide in due, o di un'imbarcazione con svariate migliaia di specie animali in balia dell'oceano, poi vidi James alzarsi, spolverarsi di dosso i fili d'erba secca, indossare la giacca e calarsi in testa il tricorno, il quaderno d'appunti dimenticato tra l'erba.
- Ora me ne ritorno nel mio alloggio
- Già te ne vai?
- Si devo studiare, andare a pregare in cappella, per oggi basta aria aperta.
Senza farmi vedere presi il suo quaderno nascondendolo velocemente sotto la mia giacca nera.
- Beh, quand'è cosi, Salute a te James!
- Salute a te Isaac....
MELE by Elton
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Perchè non gli hai sparato? Perchè?..Perchè è un mio amico
[ Questo messaggio è stato modificato da: eltonjohn il 25-02-2008 alle 16:46 ]
[ Questo messaggio è stato modificato da: eltonjohn il 03-03-2008 alle 09:33 ] |
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