Richmondo
 Reg.: 04 Feb 2008 Messaggi: 2533 Da: Genova (GE)
| Inviato: 06-11-2008 11:59 |
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La sensazione inevitabile che ho provato nel vedere Les anges du peche di Robert Bresson, il primo film dell'autore francese, primo lungometraggio già maturo e contaminato di quel senso per una poesia realista (vagamente alla Vigo), in definitiva molto più spirituale di come non si pensi, è di titale incompletezza nella visione, di quasi buciante astinenza di spettacolarità. Finito il film, rimaneva tanto significato, tanto spirito, ma molta poca sostanza di cui trattare. Soprattutto, molto poco spettacolo.
Insomma, ho trovato moltissimi spunti di riflessione, ma nessuno così dettagliatamente approfondito. Pare tutto così accennato, così abbozzato, quasi nel tentayivo di voler lasciare tutto ai livelli minimi, ad un'estetica che sia la più spoglia possibile e, per questo, che dia l'incipit a diverse interpretazioni.
La storia del film è abbastanza banale e, a suo modo, si regge più sull'approfondimento dei personaggi, dei caratrei, che non su un canovaccio narrativo abituale. Sì, certo, c'è un inizo e c'è una fine, ma non è tanto questo che importa, quanto i cambiamrnti di umore, di carattere, di sentimenti, le inflessioni più sottili del'animo delle protagoniste, che non tutto il resto.
Si narra di Anne Marie, donna orgogliosa e caratterialmemte forte, che giunge ad un convento specializzato nel recupero di "anime dannate", quelle delle detenute che le sorelle prelevano dal carcere vicino, per reindirizzarle sulla retta via.
Anne Marie prende subito di petto la sua missione, tanto che dopo pochi giorni individua subito, in seguito ad una sua uscita presso il carcere, una detenuta, Therese, la quale sembra volre tutto dalla vita, meno che essere redenta dai suoi peccati. Infatti sosterrebbe di essere stata incarcerata ingiustamente, n quanto innocente. Ma, una volta uscita di prigione, introdotta nel convento da Anne Aanrie, scappa e si reca presso colui che avrebbe commesso il delitto per cui lei era stata incolpata e che si era scampato parecchi anni di carcere che invece lei aveva scontato indebitamente; dopodiché lo uccide.
Le tematiche che si ritrovano sono più o meno già quelle tipiche del regista francese: l'abnegazione, l'espiazione, l'accettazione del giudizio altrui, la vocazione a giudicare gli altri, l'inevitabile scoperta che, aa fine del proprio percorso di vita, ci sarà in realtà un solo ed unico giudizio che conterà, quello universale, divino, assoluto. E poi, ancora, un verismo o che è solo all'apparenza realista, in definitiva molto slegato dal mondo concreto, bensì molto più incline ad indagare l'aspetto spirituale, intimo e profondo della vita.
Il cinema di Bresson non è quello delle grandi storie, di popoli, di città, di ideali, bensì quello delle piccole comunità (un convento, una famiglia), dai toni smorzati, antispettacolari, mi verrebbe da dire anticinematografici. Anni dopo, in quello che sarà uno dei suoi massimi capolavori, per intensità e lirismo (uno dei miei film preferiti in assoluto), addirittura si servirà della delicatissima metafora animale per parkare di quelloche in fondo è il destino del piccolo uomo in un mondo fredo ed ingrato: Au hazard Balthazar , mi pare del 1966.
Ma ciò che più colpisce nel suo cinema, dicevo, è proprio l'anti spettacolarità, la totale mancanza di afidamento sugli attori, che npn sono più tali, ma completamente avulsi da ogni dinamica recitativa. Nei suoi film gli attori sono quasi ombre, che cambiano più nella luce degli occhi che non nella forza dei dialoghi, nell'espressività e nella mimica facciale, o nella gestualità del corpo. Il linguaggio di Bresson è tutto ridoto all'osso, al montaggio, ad una coerenza temporale che sembra quasi in eterna attesa che giunga quel punto di svolta che non arriva mai.
Solo il finale, dei suoi film, è completamente teso alla catarsi, alla liberazione, la puruficazione, la liberazione interiore, qua e là azzardata anche in corso d'opera (ora mi riferisco in particolare proprio a La conversa di Belfort ), ad esempio quando Therese si sfoga, nel buio della sua cella, con un urlo che ha tanto il sapore della ribellione e dell'anarchia.
Se c'è un aspetto che ho ravvisato in questa sua opera, è che quel gusto per il minimalismo più spinto, talvolta quasi indisponente nel suo linguaggio, conduce lo spettatore ad un senso di "mancanza" finale, nel film. Come quando ci si alza da tavola, dopo aver mangiato in un perfetto ristorante, tuttavia ancora con un leggero senso di appetito.
Ciò è dato dal fatto che nel suo cinema - ed in verità, secondo me, in molti film francesi che ho visto - è esasperata ed accentuata ogni minima distanza, fra le figure rappresentate e riprese.
Il cinema di Bresson è spoglio, povero, pieno di significato eppure vuoto di sostanza, come il corpo di una persona da poco defunta, che è privo di vita, di pulsazioni, di colore, ma ancora pieno di anima.
Non per nulla (S P O I L E R) Les Anges du Peche si conclude porprio con la morte corporale della protagonista, che però corrisponde ad una rinascita spirituale della stessa (fine S P O I L E R).
Ma sono tante le scene in cui si procede per sottrazione, invece che per aggiunta. Mi viene in mente la sequenza dle raduno delle suore nella sala centrale del convento, in cui la stessa architettura del luogo invita ad una totale concentrazione sul personaggio, quella dfrontalità completa che sarà di molti altri autori, ma che qui sta a significare anche di più: nessun elemento fra un personaggio e l'altro, un vuoto totale, quasi la mancanza di qualcosa che leghi gli uni agli altri. La grande distanza fra l'uomo (in questo caso, la donna) ed il mondo. Concetto che mi sembrava che Truffaut esprimesse attraverso le sue carrellate fugaci, veloci, quasi distratte nella Parigi del suo tempo o nella Francia, più in generale, dei suoi anni, mentre i suoi personaggi rimanevano fisati sullo schermo a vivere storie dal sapore dell'alienazione (sentimentale: Jules e Jim , La mia droga si chiama Julie....o sociale: I 400 colpi , Mica scema la ragazza ).
Lo scarto fra un mondo che si allontana ed un personaggio che deve rincorrere se stesso, nei meandri della sua anima.
Così, tornando al film di Bresson, anche nelle scene di dialogo, c'è in verità una totale astrazione dal mondo, dal gruppo, ma nella più totale sofferenza, nella più completa incomprensione reciproca.
La scena dell'omcidio/vendetta compiuto da Therese è una volta di più emblematica in tal senso: c'è il personaggio, Therese, appunto, ripreso frontalmente. Lo sguardo di Bresson non si scolla un secondo da lei. Sul muro un'ombra, quella della vittima (che prima fu carnefice, visto che fece incolpare ingiustamente Therese). Ma nulla di più. Solo un'ombra. Poi uno scambio di battute:
- Buon giorno
- Buon giorno .
Sparo.
L'ombra che si accascia.
Gli occhi di Theres colpevolmente appagati, ma d'ora in pi incredibilmente consapevoli dell'impossibilità di riscatto.
Questo è il cinema di Bresson. Distanze, vuoti, mancanza di sostanza. Ma tanto, tanto spirito che, prima o poi, darà salvezza e grazia, nell'agognato finale.
Pubblicato sul mio blog.
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L'amico Fritz diceva che un film che ha bisogno di essere commentato, non è un buon film . Forse, nella sua somma chiaroveggenza, gli erano apparsi in sogno i miei post.
[ Questo messaggio è stato modificato da: Richmondo il 11-11-2008 alle 11:47 ] |
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