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Autore parigi
martalari

Reg.: 11 Mag 2006
Messaggi: 460
Da: roma (RM)
Inviato: 18-09-2008 11:45  


Quando si sta male si diventa improvvisamente attenti a tutto....


"Mi piace guardare fuori ....
mi piace guardare gli altri che vivono...
chi sono, dove vanno....
diventano gli eroi delle storie che m'invento..."

E' la frase che un bellissimo ragazzo parigino pronuncia alla sorella.
Lui ex ballerino dopo una visita medica scopre che a breve potrebbe morire, lei - Juliette Binoche - un'assistente sociale decide di stargli vicino con i figli ai quali spiega (in una toccante scena, assolutamente non patetica, come non è patetico il film grazie ai dialoghi) cosa sta accadendo allo zio.

La sua condizione gli offre una nuova visuale su tutte le persone che incrocia.

Nel film "Parigi" dalla locaton-protagonista della pellicola si intrecciano le storie di tante persone che il giovane incontra giorno dopo giorno, persone che a loro volta s'incontreranno, interagiranno....per formare la storia, vero gioiellino per chi ama i film francesi



Scritto molto bene, il film è lo specchio di quanto possa essere debole l'animo umano, uomini e donne all'apparenza spavaldi che scoprono di essere incapaci di agire, come il professore universitario saccente che dopo aver visto una studentessa molto bella sa di non esserne all'altezza ed entra in crisi


Interessante poi come la normalità di una persona, di una cosa, di un'esistenza sia qualcosa di indefinito "cosa significa essere normale?" chiede uno dei protagonisti alla moglie e lei risponde "non significa niente" alla fine è la normalità che deve esser curata non il contrario


Non c'è nulla di patetico nella storia, il film pieno di dialoghi scritti molto bene, tende a raccontare la storia di un gruppo di persone dalla fornaia all''architetto, dal senzatetto all'assistente sociale, dal ballerino al clandestino alla modella, alle prese con la difficoltà e allo stesso tempo il fascino di una vita che ogni giorno presenta sorprese sempre inaspettate che se ci travolgono ci rendono più ricettivi socialmente e disponibili nei confronti degli altri


Curiosa la scena della reggia accostata al deserto....


Un film di dialoghi (molti, come moltissime le scene e le location, noi avremmo levato gli attori del mercato) con sfondo una Parigi sempre presente, non quella di "Io vi troverò", ma quella stile cartolina dove tutti (compreso chi vi scrive) vorrebbe abitare per sempre

Per chi ama i film francesi imperdibile (p.s. non è un film sentimentale, non è un film drammatico, non è una commedia, è un film fatto di tante storie..)

dal regista de L'Appartamento spagnolo e Ognuno cerca il suo gatto


Voto 6 1/2

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gatsby

Reg.: 21 Nov 2002
Messaggi: 15032
Da: Roma (RM)
Inviato: 18-09-2008 18:42  
Kaplisch è un regista molto interessante, mai banale, anche se ogni tanto con qualche passaggio (all'interno dello stesso film) a vuto.
Purtroppo questo film oggi non lo potrò vedere, lo recupererò appena esce, anche se per adesso chi lo ha visto me ne ha parlato in maniera discordante.
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Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è

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sandrix81

Reg.: 20 Feb 2004
Messaggi: 29115
Da: San Giovanni Teatino (CH)
Inviato: 06-10-2008 17:16  
scritto male e praticamente non girato. tralaltro non so dove prenda le recensioni martalari, ma non ci hanno capito niente del film.
a breve approfondimento.
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Quando mia madre, prima di andare a letto, mi porta un bicchiere di latte caldo, ho sempre paura che ci sia dentro una lampadina.

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sandrix81

Reg.: 20 Feb 2004
Messaggi: 29115
Da: San Giovanni Teatino (CH)
Inviato: 07-10-2008 12:57  
GENERAZIONE Y

Capitale politica del cinema sin dalla sua nascita. Che cosa significa riscoprire Parigi oggi? Cos’è diventata in questi centodieci anni e oltre?, com’è cambiata, e come l’ha cambiata il cinema?
Questi sono gli interrogativi che sembra porsi Cédric Klapisch negli ottimi primi minuti del suo ultimo film. Scorrono freneticamente le immagini caotiche di una Parigi vista e non vissuta, delle sue strade e dei suoi luoghi più conosciuti scorti en passant come da un turista della domenica che raggiunge il punto x, scatta due fotografie, volta le spalle e va via proseguendo cieco fino alla y. La Parigi su cui si apre il film è una Parigi da cartolina, è più simile ai fondali utilizzati per (grandi, immensi) film come Sabrina o Un americano a Parigi, che a quella reale delle carrellate sulla Tour Eiffel che aprono I 400 colpi, a cui forse la camera car dell’incipit di Paris allude.
Il parigino Klapisch sembra insomma voler distruggere questa visione iconoscopica della capitale francese, per fornirne una volta per tutte una nuova in cui unica icona sia il suo nome, simbolo di una città che vive, come un organismo, in ogni sua cellula e anche al di fuori di sé stessa («L’universo è dappertutto», risponde la Binoche ai suoi bambini, è nelle strade e nei monumenti della Ville Lumiere come in Africa; basta uno stacco, un batter d’occhi, per unire luoghi geograficamente lontani).
Parigi dunque non insieme di fotografie ma essere vivente, corpo in cui tutto sta insieme e insieme pulsa per tenere viva la sua essenza. Stanno insieme i titoli di testa, riuniti tutti in un’unica immagine con una ripresa aerea della Cité sullo sfondo; stanno insieme i personaggi qualunque dei piccoli drammi qualunque da commedia dell’arte portati in scena, collocati in una narrazione onnisciente resa possibile dall’unico punto di vista possibile, quello della città, burattinaio e burattino degli intrecci di vicende azioni e sentimenti.

Queste le premesse, e potrebbero essere le premesse per uno splendido film.
Senonché, la pellicola prende da subito dopo una piaga (non è un errore di battitura) che è forse la più triste peculiarità di tanto cosiddetto cinema d’autore odierno: il significato, i significati, vengono affidati perlopiù ai dialoghi, alla sceneggiatura. Per quanto il sottoscritto sia il primo a subire del tutto, per motivi cinefili e non, il fascino frattale bohemien e romantico della città di Parigi, davvero non può bastare il mostrarne angoli e scorci per fare un buon film sulla sua anima. O anzi, probabilmente potrebbe anche bastare, se solo le sue immagini fossero rese come tali, e non applicate a una sorta di funzione divulgativa (proprio come le squallide trasmissioni di storia che avviliscono il professore universitario interpretato da Luchini) in cui l’unico montaggio è quello in cui alla parola viene sovrapposta l’immagine ritenuta più adatta (un po’ come avviene nei telegiornali di Emilio Fede, seppure ovviamente con tutt’altro tipo di intenti e posizioni, estetiche prima ancora che politiche), che finisce per moltiplicare non il senso ma solo il segno. È un cinema dell’addizione che divide, e non della sottrazione che moltiplica, nel senso che non è più capace di stimolare sussurrando e sottintendendo, ma solo di spiegare sé stesso cercando di imporsi. Un cinema, medium caldo forse per eccellenza, che esteticamente si comporta come un medium freddo.

La politica degli autori – di cui chi scrive è accanito sostenitore – a conti fatti ha avuto forse almeno tanti effetti negativi sul cinema contemporaneo di quanti ne abbia avuti di positivi, e questo non certo per delle falle nella propria elaborazione, quanto perché nel tempo è stata sempre più travisata (“al punto che oggi persino gli aiuto-scenografi vogliono essere riconosciuti autori dei chiodi che piantano” annota con sarcasmo Jean-Luc Godard), portando ad una concezione del cinema in cui si è perso completamente di vista l’opera per concentrarsi solo sui nomi. Così, tutti i presunti autori si preoccupano in primo luogo che il loro pensiero, la loro marca personale, passi e giunga agli occhi e alle orecchie degli spettatori senza possibilità di fraintendimenti (o di non-intendimenti), nella maniera più diretta possibile, eliminando cioè qualsiasi tipo di filtro, anche quelli organicamente insiti nella natura stessa del medium cinematografico, il filtro dell’obiettivo della macchina da presa, e – di conseguenza – quelli sensoriali degli spettatori. Ne viene fuori un cinema che è sempre meno cinema e sempre più didascalia, un cinema che va sempre meno visto e ascoltato e sempre più letto, un cinema scritto come un articolo o un saggio e poi ripreso solo per comodità di ricezione, pensato più per parole che per immagini e costruito subordinando le seconde alle prime. Non sto cercando – come era obsoleto fare già negli anni Quaranta – di rivangare la grandezza e la superiorità del muto rispetto al cinema parlato, ma voglio prendere le distanze da un cinema che trascura le immense potenzialità di cui dispone come linguaggio ontologicamente autonomo, per limitarsi ad essere un buffer, una sorta di cantina dei pensieri del proprio proprietario (che siano pensieri più o meno condivisibili, a patto che si possa stabilirlo, mi importa poco, almeno in questa sede), mezzo di conservazione e non più di comunicazione.
Parigi fallisce proprio in quelle che sono alcune delle critiche che cerca di muovere, come quella della «costruzione permanente della propria modernità», evocata dal personaggio del professore e tradita nell’immobilità della messa in scena, o quella messa sulla bocca della signora anziana che si destreggia sulle rampe di scale meglio del povero Pierre: «è la nuova generazione: a pezzi prima di cominciare». Mi sembra che Klapisch stia parlando di sé stesso e di un buon manipolo di suoi colleghi coevi.

Parigi è insomma un film che odierei con tutto il cuore, se solo nel cuore non avessi i suoi tre splendidi protagonisti, Juliette Binoche, Fabrice Luchini, e Lei, magnifica come sempre, la titolare. «Questa è Parigi: nessuno è mai contento, si protesta, ci piace» dice il tassista a Pierre.
Parigi ci piace, Parigi no.


http://www.positifcinema.com/positif/parigi.html
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Quando mia madre, prima di andare a letto, mi porta un bicchiere di latte caldo, ho sempre paura che ci sia dentro una lampadina.

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