Petrus
Reg.: 17 Nov 2003 Messaggi: 11216 Da: roma (RM)
| Inviato: 26-10-2007 16:36 |
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Danielle ha sempre avuto un rapporto estremamente conflittuale con la figlia, Sophie, tanto da subirne gli atteggiamenti e la personalità al punto di arrivare a tentare più volte il suicidio. Ricoverata in una clinica specializzata, inizia un lungo e difficile colloquio con la dottoressa Dubois, attraverso il quale emerge un’inquietante ombra nei suoi atteggiamenti: è vero disturbo psichico o finge per far sentire in colpa la figlia?
L’amour caché è una co-produzione Franco-belga-lussemburghese, diretta da un regista italiano, Alessandro Capone. I presupposti sono dunque importanti, quelli di una grande cooperazione europea, con un cast che schiera come protagonista Isabelle Huppert, primadonna del cinema continentale come unica e incontrastata mattatrice della scena. Il film svolge in un modo estremamente problematico il tema del complesso edipico, ribaltandone i soggetti e incentrando l’obiettivo su un tormentato rapporto madre/figlia. La Huppert è una madre insoddisfatta, che non ha mai accettato fino in fondo la propria bambina che, di riflesso, sviluppa un profondo rifiuto del rapporto con i genitori. Un tema difficile, duro, uno script costruito su ellissi, che lavora per sottrazione.
Queste fondamenta pongono le premesse per una complessissima architettura che, se priva di solide basi e di un certo equilibrio complessivo, rischia di far naufragare in partenza il progetto. Capone non si rivela all’altezza dell’impresa, non aiutato da una sceneggiatura che va avanti a rilento, incapace di creare una qualsivoglia empatia con il pubblico, risultando invece straniante, tendente ad alienare l'attenzione e a coinvolgere per attrazione dei contrari, rimanendo comunque ad un livello superficiale, sterile. Tutto il film sembra voler dire grandi cose, esprimere concetti e sentimenti profondi, ma non riesce a permeare un livello poco più che epidermico. A poco serve una grandissima interpretazione della Huppert, che viene sovrastato dalla generale e vuota enfasi alla quale tende tutta la messa in scena.
Tutta la pellicola si trascina quindi senza sbalzi, piatta e inconcludente, verso un finale appena inaspettato, che non basta a risollevare una generale mediocrità e approssimazione di linguaggio e di messaggio di fondo. Sarebbe forse sbagliato definirlo “il solito film francese intimista”, ma non siamo molto lontani dal vero quando affermiamo che la rincorsa a voler dire grandi cose passa per l’enfatizzazione di piccoli aspetti di un pur contorto quotidiano, che probabilmente avrebbero avuto molta più efficacia e sostanza se affrontati diversamente.
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