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Edmond - stuart gordon |
Petrus
 Reg.: 17 Nov 2003 Messaggi: 11216 Da: roma (RM)
| Inviato: 14-04-2007 15:36 |
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"Dietro ogni paura si nasconde un desiderio".
E' questo l'assunto, inconscio fino al lucido delirio finale, che muove i folli passi di Edmond Burke, impiegato della middle-class di Los Angeles, un lavoro più che dignitoso, una bella casa e una moglie avvenente, nel momento in cui si accorge, o forse, meglio, decide, che la sua vita da medio borghese gli va stretta, e inizia, quasi in trance, un viaggio che crede di redenzione, ma che sarà una caduta negli inferi senza ritorno.
Stuart Gordon, autore e regista teatrale che da anni non disdegna il cinema, di cui al contrario è prolifico autore, si basa su quella che le note di regia definiscono una 'commedia' di David Mamet, ma che appare come una cinica e corrosivamente ironica tragedia dell'umano.
Gordon assembla un cast di tutto rispetto, guidato da un formidabile William H. Macy in una delle parti probabilmente migliori di tutta la sua carriera, ma che annovera camei e apparizioni più o meno importanti di attori del calibro di Joe Mantegna, Mena Suvari e Julia Stiles.
Secondo il consueto canovaccio del 'tutto in una notte', il film di Gordon si muove agile (appena 80 i minuti di durata) nel buio losangelino (a parte una breve e significativa appendice), che Edmond, dopo aver lasciato la moglie, affronta spaesato, in cerca di una risposta che, nonostante tutti gli sforzi, non sa e non può darsi. Illuso che la vita, quella vera, si celi tra le gambe di una prostituta da 200 dollari l'ora, e che l'umanità trabocchi di comprensione, di fiducia, il cammino del disilluso e maldestro impiegato tende al buio, al baratro, virando improvvisamente in un rifiuto razzista e omofobo del diverso, le cui conseguenze saranno terribili e definitive.
Il regista restituisce pienamente lo sconcerto dell'assistere al mutamento repentino e radicale di un impiegato quarantasettenne in un catatonico disturbato schizofrenico, pronto a commuoversi per un cappellino come ad infuriarsi di fronte a una domanda alla quale non gli viene data risposta. Ed è sorprendente e agghiacciante accorgersi di come, questa storia di ordinaria follia (nel termine proprio e antico della parola) metropolitana sia assolutamente plausibile, senza bisogno di un Vietnam alle spalle per sviscerarla e comprenderla (l'accostamento, ci venga perdonato il paragone, è con il capolavoro scorsesiano di Taxi Driver), ma di come basti una vita insoddisfacente di impiegato aziendale a renderla credibile agli occhi di chi osserva.
Ma mentre la storia di Scorsese si sostanziava, faceva emergere un contenuto, un corpo contenutistico oltre che narrativo, il film di Gordon fatica a lasciarsi alle spalle la superficie sterile di una spelucazione teorico-filosofica sulla normalità e sul desiderio umano, esercizio di stile da salotto 'bene', da chiacchere ciniche intellettualistiche e cervellotiche.
Con il piglio del miglior Truman Capote, ma senza averne la stessa immedesimazione con l'umano, con il reale, Gordon racconta così il proprio punto di vista sulla follia, sulla paura e sul desiderio, lasciando il giudizio sospeso, cercando in facili eccessi di messa in scena una soluzione che, come per il suo protagonista, è impossibile a trovare, forse perché inesistente.
Tutt'altra cosa sarebbe stata raccontare 'la' follia, 'la' paura, 'il' desiderio.
già pubblicata qui
_________________ "Verrà un giorno in cui spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate" |
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Tristam ex "mattia"
 Reg.: 15 Apr 2002 Messaggi: 10671 Da: genova (GE)
| Inviato: 18-04-2007 17:36 |
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La normalizzazione che attanaglia il film si costruisce sulla gelidità e neutralità degli spazi in cui gli attori sono disposti e abbandonati. Gordon descrive una geometria dell’esistenza soffocando i corpi dei personaggi, spingendoli a cozzare con una scenografia ridotta al minimo, eliminando ogni possibilità di integrazione o di fuga. La repulsione è quindi parte integrante di una rapporto relazione dell’uomo con la città che abita e riflesso di un’inconciliabilità che attraversa non solo la narrazione a scatole di Mamet, ma che trasborda sul viso di William Macy, sui corpi delle donne che incontra, sugli schermi più o meno inviabili che le dividono e impediscono di essere toccate, sulla stessa reiterata città fatta di luci e neon uno variazione dell’altro, sui rapporti che il protagonista intrattiene con le persone che incontra nella sua personale notturna discesa agli inferi scambiata per redenzione, per quell’ultimo esamine desiderio di riconquistare una vita che non è più sua e già irrimediabilmente perduta dalle prime inquadrature.
Nel vuoto pneumatico di una vita fatta di silenzi e repressioni normalizzanti il presente si perde nella reiterazione dei gesti ormai privati di un loro significato e trasformati in tracce che lasciano solchi sempre meno profondi, ma incicatrizzabili: traiettorie dalle quali è impossibile deviare, vestizioni di corpi sempre uguali e svuotati di cui resta come ricordo e testamento solo l’involucro epidermico. Una caduta silenziosa verso un nulla di devastante enormità nel quale niente appartiene alle forme simboliche che lo hanno creato e in cui anche la memoria di questo legame è per sempre perduta.
L’incomunicabilità, o l’impossibilità di reagire e quindi la condanna ad essere un corpo invariabilmente attraversabile, apre le pulsioni recondite di Edmond su cui si costruisce il ribaltamento prospettico sul mondo: ciò che subisce diventa ciò che serve far subire. Il punto di non-ritorno della violenza (fisica e verbale) segna la definitiva perdita del senso di realtà che domina la normalizzazione a cui si è costretto Edmond privandolo di ogni appiglio con il mondo, con la sua socialità e con le regole che controllano l’interazione con l’altro.
L’insurrezione che Edmond si impone passa quindi attraverso ad un’invasione territoriale, corporea, una prevaricazione liberatoria che timidamente si concretizza intorno alla pulsione sessuale (intesa soprattutto come atto distruttivo e liberatorio dal passato) e al bagno di sangue che, con fredda inevitabilità, ne consegue, e muore immediatamente nell’impossibilità di una riconciliazione e di un riconoscimento di Edomond come soggetto attivo nel mondo: resta corpo inerte, motore di violenza repressa, elemento di quella vita senza padroni che lui stesso vive.
La catarsi del sangue non è quindi certo da intendere secondo le pulsioni schraderiane (Taxi Driver, Hardcore, Mishima). Al contrario è parte integrante e non gerarchica della vita stessa e viene vissuta, oniricamente, come semplice passaggio narrativo, non portando in sé nessuna rivoluzione.
L’uomo quindi non conquista la frontiera che si era promesso di domare, il mondo, la sua selvaggità, resta indomata. Gordon struttura quindi il film per sequenze precise e conchiuse che lentamente iniziano a tessere fra di loro, con il progredire del film, una tela costrittiva in cui legare il personaggio di Macy. Se all’inizio quindi Edmond attraversa mondi differenti, ognuno con le sue regole, il suo stesso tentativo di distruggerle per inserircisi crea quello scarto, facilmente evitabile, ma capace di condannare una vita in cui però il film si risolve: la normalità è un’eredità da cui è impossibile fuggire; non esiste un gesto liberatorio; non può cancellarsi il passato.
D’altronde quale libertà offrirebbe lo stesso Gordon? Il film distrugge ogni forma di vita nel suo lento progredire. Le gabbie in cui è descritto Edomond sono gabbie molto più potenti della singola sequenza che in sé racchiude la metafora di quella cella che solo nell’ultimo disperato finale potrà (potrebbe?) rappresentare quel momento di salvezza dalle proprie paure e dai propri desideri, ma in fondo non è altro che l’amaro finale di una vita cancellata e reinventata da quella violenza che come un baratro si apre sotto la sottile pellicola di una vita vissuta per quell’inerzia devastante che sia chiama normalità. Non bassezza, non fallimento, non mancanza. Pura e semplice, devastante normale normalità.
_________________ "C'è una sola cosa che prendo sul serio qui, e cioè l'impegno che ho dato a xxxxxxxx e a cercare di farlo nel miglior modo possibile"
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gatsby
 Reg.: 21 Nov 2002 Messaggi: 15032 Da: Roma (RM)
| Inviato: 20-04-2007 09:00 |
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A Venezia 2005, davvero tanto tempo fa, ne scrissi così per Filmup:
William H. Macy è uno di quegli attori di cui non ti ricordi mai il nome, ma benissimo il volto. Rugoso come la corteccia di una sequoia, bianco come il marmo, se non per dei glaciali occhi azzurri che ce lo fanno credere sempre un tipo calmo e riflessivo, uno di quelli che metabolizza le delusioni quotidiane in silenzio, senza ribellarsi.
E così c'è chi se ne approfitta scambiando la cortesia per debolezza, senza sapere che il vaso, goccia dopo goccia, sta per traboccare…
Come tutti i giorni Edmond esce dall'ufficio per tornare a casa. Lungo la strada si ferma per farsi leggere il futuro con le carte. Ascoltatone l'esito, la svolta: basta con quella vita, si cambia.. Va' dalla moglie per lasciarla, dopodiché si avventura per le strade della sua città armato di tanta rabbia repressa e un coltello…
A metà tra "Fuori orario" di Martin Scorsese e "Un giorno di ordinaria follia", Edmond è un film brutale, scomodo, scorretto. In poche parole: tremendamente affascinante. La sceneggiatura è del grande David Mamet, già autore, tra l'altro, di "Il postino suona sempre due volte", "Gli intoccabili" e "Ronin".
Edmond è prima di tutto un film americano. Lo è il suo protagonista, emblema di quel gruppo di persone che si è scocciato di dover pensare bene e comportarsi di conseguenza.
All'inizio della sua "nottata" Edmond confessa i propri problemi ad un uomo al bar. "Un bel rapporto sessuale risolverà tutto" a suo dire. E così la ricerca dell'appagamento sessuale (ne abbiamo conferma con l'enigmatico finale) diventa il filo conduttore del suo personale viaggio verso gli inferi (che scopriremo non esser tali per lui).Un percorso allucinato, dove la voglia di combattere l'ipocrisia e i luoghi comuni con cui lo hanno educato va' oltre ogni limite. Edmond per combattere quelle paure a suo dire"immotivate" semina terrore e se qualcuno usa su di lui la forza, gli risponde con la violenza. Cerca attenzione, trova indifferenza. Vuole controllo, vaga nella confusione. E quella sicurezza in grado di calmarlo che invoca in ben due occasioni finisce per trovarla lì dove non si sarebbe mai aspettato di trovare.
Stuart Gordon, che nel passato aveva fatto diretto soprattutto film horror, firma una regia tesa, angosciante, perfetta per tenere col fiato sospeso lo spettatore fino alla fine. La lunga scena nell'appartamento della cameriera Julia Stiles concentra tutte queste peculiarità riuscendo a raggiungere un apice di suspance degna di tanti, celebrissimi, film di paura. Il film è stato presentato a Venezia, ma nella selezione minore "Orizzonti". Che dietro alla scelta ci sia il timore che un film così "politico" potesse vincere qualche premio ed attirare troppa attenzione tra i mass-media, è quasi una certezza.
Questa fu la conferenza, cui contribuii con più di un paio di domande (non so perchè ma non se lo cacò quasi nessuno 'sto film)
http://filmup.leonardo.it/speciale/edmond/int01.htm
_________________ Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento : quello in cui l'uomo sa per sempre chi è |
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