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Il Cinema di Alain Resnais - percorsi, opere, stile |
Kieslowski
 Reg.: 09 Mag 2005 Messaggi: 1754 Da: Reykjavik (es)
| Inviato: 26-04-2006 23:00 |
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Un architetto/pittore che sfugge al tempo provando a intrappolarlo
Ci sono autori che fanno parte, stabilmente, del firmamento storico cinematografico.
Alain Resnais, classe 1922, è uno di quegli autori il cui nome può essere addirittura parafrasato con il termine storia del Cinema. Egli è infatti divenuto un caposaldo portante della settima arte tramite serie di innovazioni a livello strutturale-filologico ad oggi ineguagliate, almeno per quanto riguarda il proprio creato più laborioso, la magnifica trilogia “del ricordo”. Fino ad allora non si era mai osservata una maestria nell’elaborazione del tessuto filmico gestita da una rete di piani temporali tanto complicata quanto nitida nella sua messa in scena: espedienti, in definitiva, che potevano essere rappresentati con successo solo da un patron del grande schermo, un pioniere della Francia esploratrice di nuovi orizzonti cinematografici, perché solo il cinema poteva dar vita alla coraggiosa creatura di Resnais. Un architetto, che traccia con strumenti precisi (i cui angoli potremmo definire smussati, vedendo la meravigliosa fotografia scelta per ammorbidire gli spigoli che inevitabilmente si vengono a creare trattando argomenti ancora oggi sconosciuti all’uomo) le linee di riferimento per lo spostamento cartesiano di tutti i suoi elementi, delle sue pedine, dei punti noti sulla parabola (o, se volete, su tre rette temporali costantemente in sincronia) del tempo inteso come spazio vitale, come condizione imprescindibile alla quale associare la completezza delle azioni umane. Ed è il rapporto secolare tra spazio e tempo a costituire la geometria del regista, a fornirgli gli spunti sui quali abbozzare vedute geniali del percorso sintattico che teoricamente ogni individuo è portato a compiere, assecondato da altri oggetti astratti formanti il linguaggio filmico stesso, si tratti del ricordo inteso come flashback (o viceversa) o della fotografia parallela su due (passato-presente) o più (implementazione del tempo futuro) livelli narrativi o ancora della sinergia che si viene a creare tra i protagonisti delle sue opere in situazioni che non avrebbero apparentemente senso se il filo sequenziale non continuasse imperterrito a spezzarsi frammentando sempre nuove soluzioni logiche (non a caso i due amanti di Hiroshima non avrebbero mai potuto ritenersi tali se non lo fossero stati in un quantomeno ipotetico passato che prepotentemente riaffiora nei gesti, negli sguardi e nel silogismo che si accosta più facilmente al tempo presente, la quotidianità come periodo stretto di azioni compiute e ancora salde nella memoria). Rigoroso se pur libero nell’espressione della sua arte, Resnais è anche pittore dei suoi film-dipinti, con la consueta leggerezza di chi gira prima di tutto per sé, per tentare di dare risposte alle domande esistenziali tramite l’amore per la passione filmica. Pittore perché le linee, gli spazi e i contesti sembrano, man mano si assimilano le intenzioni del francese, appartenere sempre di più a un quadro irreale (discorso che vale anche nelle sue opere più apparentemente razionali), o meglio alla realtà smagnetizzata e dilatata all’infinito sulle sue tele criptiche per lessico e forma ma facilmente assimilabili per contenuti e obiettivi. Cinema di conseguenza contradditorio e (mai abbastanza) eccessivo nella forma, complicato ulteriormente dall’insormontabile desiderio di scoperta ricognitiva e sensoriale per far luce sulle prerogative più ambiziose che per natura l’uomo si pone.
La pennellatura di questo autore è unica nel suo genere e il suo tratto, liscio e impavido come il più maledetto dei ritrattisti, si amalgama frequentemente con le emergenti sensazioni che lo portano a sentirsi (ri)stretto nell’essenza sociale circospettiva. L’esigenza di scorgere un bagliore più vasto (arte come ponte – astratto o non -) è quindi sostenuta dal distaccamento dei criteri usuali per gettarsi del tutto su nuovi orizzonti alternativi e possibilistici. Esplorare un tale malloppo culturale/psico-intellettivo è impresa piacevolmente stremante e se il maestro francese ha creato un documento irrealizzabile attraverso qualsiasi altro campo extracinematografico, è anche bene ricordare e donare uguale importanza al tragitto percorso per arrivare ai primi lungometraggi, il passato più oscuro e affascinante di Resnais, costellato da tappe basate sulla propria formazione prettamente documentaristica.
Piccoli esempi di grande arte
E’ necessario quindi andare a scavare nella memoria del cineasta francese, scendere per un attimo in cantina o salire un istante in soffitta alla ricerca di antichi cimeli, oggetti che possiamo associare al ricordo (una costante attenzione va posta a metafore, rimandi o dichiarazioni esplicite riferite alla destrutturazione del piano temporale, alla memoria, all’oblio, pretesti principali di cui si nutre il cinema di Resnais) per rispolverare il loro antico ma mai defunto splendore. La “pre-filmografia” del francese, ricca di spunti per gli amanti dello stesso, si presenta come uno scrigno ricco di preziosi ammassati, su cui la luce dell’arte, i gridi della rabbia rivoluzionaria, la consapevolezza di esistere in un mondo ancora pienamente sconosciuto, si schiantano frantumando tanti strani ma pregievoli segmenti. Negli anni ’40 il regista inizia a produrre una grande quantità di cortometraggi, per lo più documentari. Nascono infatti due corti realizzati in collaborazione con Gaston Diehl di circa 20 minuti a cavallo tra gli anni 40 e 50 che prendono nome dai due autori impressionisti. Il risultato è la ripercussione delle opere da parte di un occhio meccanico, che si ferma su vedute paesaggistiche o su particolari da esplorare con la coscienza che non basta osservare, scrutare o basarsi sui soggetti dipinti, bensì è necessario approfondire con la propria mente lo spunto offertoci dal regista. Siamo trapassati da un ciclico vortice di emozioni visive, priotettili simili alle pennellate schiave dei maestri documentati, incanalate però costantemente dall’accortezza di voler raggiungere un obiettivo unico e indiscutibile, quello di analizzare (esponendola) un’arte libera dai canoni che l’avevano incatenata per secoli. E noi, immobili, ci lasciamo trapassare, consci di venire scaraventati nelle stesse strade, dinnanzi ai medesimi colori, in relazione quindi con i protagonisti che popolano i soggetti dei tre pittori (Gauguin e Van Gogh sono infatti i due artisti immortalati dalla mano di un terzo, Resnais), sfumando le nostre vedute nel momento in cui la macchina sfuma o collide i propri orizzonti. A cavallo di questi due cortometraggi ne viene prodotto un terzo, più breve ma allo stesso tempo carico di un’intensità irripetibile, che ritrae letteralmente (l’occhio si posa su praticamente tutti i punti del maestoso dipinto) il quadro Guernica, di Pablo Picasso. Resnais per Picasso (in quanto Resnais per Guernica) e, indirettamente, Picasso per Resnais. L’omonimo filmato annulla lo spazio e il colore (un bianco e nero maggiormente estremizzato) secondo le regole prefissate dal cubista spagnolo, creando, grazie all’apporto della mobilità cinematografica, un lucido rimando alle vedute di Picasso sottolineandone la drammaticità. Le inquadrature sfuggenti, rabbiose, sono la punta che completa l’arma scagliata molti anni prima dal pittore: apre con la città distrutta dalla stupidità umana per sfociare in un inno di libertà che punta il suo dito sulle ingiustizie della guerra e del potere. Nel mezzo, la moltitudine di lampi ammassati in una teorica pila, gestita con astuzia dalla velocità camaleontica della voce fuori campo (indispensabile mezzo di denuncia che Resnais imparerà a sfruttare con esperienza inimitabile nel proseguimento della sua carriera), a tratti graffiante per rabbia e velocità ( “prova a dire alla madre perché suo figlio è morto!”, udiamo scalfiti dalla brutalità delle parole, scagliate come pietrerivoluzionarie) e a tratti inscrutabile( “attori tristi ma così dolci”, riferito alla statica e inesorabile situazione dei personaggi che loro malgrado sono disseminati sul dipinto, è una frase quasi sospirata, sotto la quale si cela la vergogna nell’appartenere a una razza truce come quella umana ), che recita (amalgamando le differenze sensoriali) un testo letterario studiato e ricercato (espediente stilistico facilmente ritrovabile anche nei suoi lavori più maturi, criticato, in seguito, da alcuni esponenti della Nuovelle Vague francese, movimento cronologicamente parallelo a quello personalissimo – non inquadrabile - di Resnais) per scuotere lo spettatore per mezzo appunto dei pesanti cambi ritmici conseguenti o anticipanti rumori volutamente assordanti, disturbanti.
Avanzando cronologicamente scorgiamo un altro importante document(ari)o sulle arti figurative, Les statues meurent aussi (1953), simile per forma (focus sulla produzione artistica umana abbinato ad ampie vedute sociali e civili) ma discostato dai precedenti lavori ricamati sull’arte pittorica e spostato su quella scultorea, estremamente necessaria all’autore per proseguire l’elaborazione di una personale sintassi rispettata nella totalità del suo prolifico curriculum. Questa sintassi inizia appunto nel momento in cui Resnais squadra le radici etico-civili delle popolazioni africane nel film, opponendo un catalogo visivo di sculture, busti, rilievi, intarsi, maschere, ornamenti, abbellimenti, tutti provenienti dallo stesso (semplice e basilare come l’uomo delle origini) ceppo culturale. E’ per l’appunto l’uomo delle origini a (s)co(in)nvolgere l’autore francese, il quale, ancora una volta usando la voce fuori campo ad illustrarci le immagini, puntualizza la rilevanza di certi usi/costumi che sono stati alla base dello sviluppo sociale (lo stesso che paradossalmente si impadronisce del cinema di Resnais nel momento in cui si affrontano le tematiche belliche). Le statue/ornamenti come feticci da custodire, come parte completante del processo esistenziale moderno proiettato verso un passato da annullare tramite la (in)sicurezza del materialismo affidato all’arte. Ma anche sculture/tradizioni come unico elemento connettivo di usanze perdute nel rumore dell’avanzamento tecnico-scientifico, con la purezza del pensiero e la libertà dell’espressione non imprigionabile in schemi elitari. Questa ricerca dell’errore umano (in verità in Les statues meurent aussi l’obiettivo è esattamente opposto all’errore umano ma serve per scartare ipotesi, per avanzare teorie partendo da diversi presupposti) è facilmente reperibile nell’opera omnia del regista. Senza però spostare l’occhio troppo avanti, questo atteggiamento è decrittabile dal suo successivo corto, Nuit et brouillard (Notte e nebbia),che comincia a inquadrarlo come compositore di un certo livello nel panorama cinematografico francese. Il film, giustamente glorificato a capolavoro e prima realizzazione a colori (in parte) dell’autore, è una calcata denuncia contro gli imperdonabili crimini commessi dal progetto nazista (è però un’attacco aperto direttamente al potere per sormontare popolazioni a noi identiche per diritti, il nazismo ne è il simbolismo lampante) ripercorrendo il cammino delle vittime stesse. Il punto di rilievo dell’opera risiede nell’accatastare documenti d’epoca in bianco e nero (crudi, vergognosi filmati o gelide, assurde fotografie) su un’insieme di altrettanto fredde vedute a colori (di ancor più grande impatto da come ci suggerisce il testo narrato, che pensa alle rovine letteralmente impregnate di milioni di morti) dei campi di concentramento più “famosi”. Il film punta il dito prima che sul nazismo sull’uomo in generale, identificando la razza umana come carnefice di delitti talmente atroci quanto studiati e ingegnosi. Notte e nebbia è la condizione del deportato che presuppone il cessare-rinnegare ogni speranza verso la vita, capire fino in fondo quanto può costare essere diversi-migliori. Ma il film è anche qualcosa di molto più sottile: musiche sinfoniche introducono lo spietato testo di Jean Cayrol, che senza un attimo di esitazione commenta le agghiaccianti diapositive (ce n’è forse davvero bisogno? Cayrol lo sa bene e spesso lascia in sospeso alcuni pensieri per fare parlare il “testo” visivo, scritto con il sangue di chi non può più permettersi di sperare, stampato dalle anime di bambini-adulti-anziani divenuti in seguito numeri/sigle) e cerca perennemente risposte tanto ovvie quanto inspiegabili. Non a caso la frequente affermazione “Je ne suis pas responsable” è il canale usato per tarpare un fantomatico alibi allo spettatore, complice a priori dell’orrore, numero inscomponibile dell’insieme/agglomerato numerico/umano. Si evidenziano solo difetti (l’errore umano che per principio Resnais tende a inseguire), del resto la guerra non ha altri meriti che crearne, da una parte e dall’altra.
E il carrello della macchina da presa è ora posizionato accanto ai binari sui quali i treni della morte sono transitati per anni; ancora più a fianco sterpaglie, nuovi manti erbosi innocenti nel loro destino ma nati su un suolo infinitamente maledetto. Fino ad arrivare agli edifici, ora privi di qualsiasi forma di vita (probabilmente lo sono sempre stati), carichi solo di odio, da e verso il mondo. L’abile gioco di complicità della macchina con il testo scritto enunciato dalla voce fuori campo è il più tetro scherzo giocato allo spettatore (non per cattiveria quanto per far riflettere quest’ultimo, a volerci dire che esiste sempre una speranza, per quanto remota, di cambiare): in primo piano le rovine, ferrose, lugubri, abilmente incorniciate nella tristezza del cielo immobile e fuori da esse l’insaziabile voce che preclude, ancora una volta, un se pur piccolo sollievo dentro di noi, asserendo che l’inquadratura si sposta (quasi inesorabile) lontana (allargando il campo) ma la memoria non si può cancellare, non basta quindi chiudere gli occhi per dimenticare. Terminando il discorso su un’autentica perla viene sponteneo introdurne due simili, quelli che sono gli ultimi splendidi cortometraggi, che segnano la fine del periodo documentarista (che ha conservato, per tutta la sua durata, la medesima compagine basata su immagini+voce narrante+sottofondo musicale ipnotico e sibillino), delimitano il passaggio alla seguente parte realizzativa. Il primo di questi due corti (15-20 intensissimi minuti l’uno), successivo (1956) all’esposto sui campi di sterminio, è il maestoso (per suntuosità e grandiosità del soggetto descritto) ritratto della biblioteca nazionale di Parigi, dal titolo Toute la mémoire du monde . Titolo simbolico e compito difficile, il film tenta di analizzare in tutte le sue facce qualcosa che per la propria natura presenta estreme difficoltà anche solo ad essere catalogato e diviso in sezioni. L’edificio (nel filmato viene introdotto come una vera e propria fortezza) è infatti una prigione per tutti i volumi scritti della terra, che arrivano a milioni ogni secondo tali e quali a un fiume perennemente in piena. Il sapere, racchiuso nei meandri delle frasi, rispecchia un aspetto classico nel cinema di Resnais, la letteratura stessa, protagonista passiva (narrata) nei cortometraggi e attiva (parte integrante del film) in tutti i lungometraggi. Bunker e spazio atipico distanziato anni luce dal mondo, ma anche pianeta avente una propria regolazione e una legislatura interna, questa complessa biblioteca che si estende sopra e sotto terra (fino ad arrivare al cielo, conclude il narratore) è dipinta in modo da farci sentire infinitesimabilmente piccoli dinnanzi a sé. Lo spettatore è proiettato in spazi enormi gestiti fino all’ultimo angolo da un meticoloso processo atto a immagazzinare la cultura nella completezza dei suoi rami (scientifica, storica, sociologica,ecc) per impedirne la morte preventiva e prematura. Un momentaneo ritorno al bianco e nero (l’inchiostro che si perde nella mente del lettore formando concetti, creando silogismi o, semplicemente, raccontando una semplice ma piacevole storia) risulta perfetto nell’illustrare un’istituzione moderna, il quale obiettivo non ha però tempo. Stiamo parlando del sapere colletivo e globale, la chiave della porta che nasconde tutte le risposte, che la pellicola tenta perpetuamente di aprire (forzare).
Nel secondo di questa coppia di lavori terminanti un’era elaborativa riappare la magistrale figura di Sacha Vierny, già direttore della fotografia al tempo di notte e nebbia, il cui apporto nella realizzazione artistica è evidente tanto quanto la mano di Resnais. Stiamo parlando di Le chant du styrène, personalmente ritenuto uno dei più grandi capolavori del regista in assoluto.
Lo scandire le varie fasi del raffinamento petrolifico e carbonico è solo un pretesto per un chiaro esercizio stilistico, astratto e basato sul commento quasi in versi di Raymond Queneau. Il senso totale dell’opera sta in due righe, che permettono non solo di decifrare un tassello importante della filmografia di Resnais, ma di decodificare un’intera sezione logico-mentale del nostro: “On lave et on distille et puis on redistille / Et ce ne sont pu là exercices de style”. Ancora una volta geniale nello sviare le proprie intenzioni da quelle che sono le finalità captabili solo dall’occhio attento (preteso), in questa piccola filastrocca (la quale non è altro che un exercise de style) nasce e muore la vena contradditoria autoriale attraversante, ciclicamente, un modo atipico di vedere e fare il cinema, necessitato e spronato dall’insoddisfatezza generata dalla (troppo scontata e facile) colonna vertebrale portante della vita. Astratto, surrealista, a tratti futurista (un futuro che si è fermato all’industrializzazione di tutto e tutti che vede l’individuo come una macchina e la linfa vitale ad esso associato come il prodotto finito da consegnare in tempo al padrone), di estrema avanguardia nel suo complesso, questo astro semi sconosciuto raggiunge inaspettate verità, stimolate dagli impasti di colore (certi mix di forme-luci-colori restano quasi impossibili da credere) che mettono i brividi, e da un’ossatura in ogni caso formale (gli aggettivi e le caratteristiche appena accennate devono far pensare a un lavoro estremo ma non così estremo come altre correnti prettamente surrealiste). Agghiacciante appunto per timbri e tonalità, la pellicola vorrebbe catapultarci nel petrolio stesso, all’interno dello stirene a temperature pazzesche (ritorna il tema dell’inadattabilità dell’uomo, li situazioni che suonano –per ora- come enigmi), unico modo probabilmente di apprezzare a pieno (e purificandoci a nostra volta) questa meraviglia di soli 13 minuti (nei quali vi è anche il tempo per un cameo dello stesso Sacha Vierny, il meritato riposo che segue l’angustiante e arduo lavoro – questa è quantomeno la sensazione a risultati ottenuti e visionati -). Con questo ultimo lavoro si chiude una rassegna che solca anche un epoca formativa, quella del documentario al servizio della memoria (artistica, denunciataria, sociale/globale che sia) per subentrare successivamente in un’altra grande esplosione creativa, che assimila tre film di importanza inaudita a una frotta di tante gemme lucenti.
Sacha Vierny resterà collaboratore per molti altri progetti di Resnais continuando a anticipare vedute, spostare visioni e intuire nuove occasioni per forgiare punti fotografici di spessore incolmabile.
Il legame di queste due personalità solcanti i margini più avanzati del genio (una malattia che sembra non accontentare mai i due, da quel che si evince dal frutto della loro collaborazione) è quanto di migliore potesse chiedere la storia del Cinema.
La trilogia del tempo, nevischio di percezioni sull’incomprensibilità universale
1959-63. Quattro anni, tre film, una tappa fondamentale nella storia del cinema. In realtà i tre (tre come numero perfetto e indivisibile, come sinonimo di perfezione riscontrabile ad ogni calcolo nel grande processo vitale) film potrebbero essere interpretati come uno unico, un’insieme di raccordi che, nelle tre parti, espongono concetti differenti ricondotti però alla medesima verità. Tre film che fanno luce (?), che mettono in guardia, che dissimilano le poche certezze apprese dall’esperienza umana. Rivoluzionaria, studiata, mai compresa in tutte le sue sfaccettature, la trilogia “del ricordo”, Hiroshima-Marienbad-Muriel, resta senza dubbio il punto più alto mai toccato dal regista francese. In questo agglomerato, che in più di un’occasione sembra sfiorare punti di sperimentazione o di estrema avanguardia, è racchiuso l’algoritmo che regola, almeno secondo Resnais, il cardine dei meccanismi che ogni infinitesimale frazione di millesimo di secondo sostiene la vita in funzione dell’arco temporale totale. Tutto è quindi ipotetico, niente si basa su dati, prove o quant’altro abbia potuto asserire che anche solo questo tessuto pregno di dinamismo esista o sia mai esistito. E la (non) certezza di dipendere realmente da filamenti facenti capo a un punto centrale assolutamente sconosciuto e inesplorabile (per com’è la società odierna, per lo stato attuale delle cose) fa si che la sfida del cineasta sia ancora più gustosa, una volta meritatamente vinta, se così si può dire. Se infatti questa triade di non-racconti (la negazione come oblio, il limite invalicabile a cui è costretto a fermarsi anche la mente dell’artista) può comprensibilmente arrivare a un certo gradino, per quanto alto, della scala della conoscenza secolare, non può chiaramente esplicare nessuna verità assoluta. Tutto ha inizio dall’idea di inscenare un romanzo di Marguerite Duras, dal titolo Hiroshima mon amour. Parallelo come già detto all’avvento della Nouvelle Vague nel cinema mondiale, l’omonimo film suscita le reazioni più disparate. Dopo poco tempo infatti verrà attaccato da alcuni membri della rivista Cahiers Du Cinema, in particolar modo dal critico-regista Jean-Luc Godard ( Rohmer:”Saremo tutti d’accordo nel dire che Hiroshima mon amour è un film del quale si può dire di tutto” Godard :”Cominciamo allora a dire che è letteratura”) perché appunto legato in maniera quasi indivisibile al testo scritto (caratteristica del movimento della Rive Gauche) e perché non dava alcun punto di riferimento a un qualsiasi tipo di spettatore. In realtà (e anche per i motivi sopracitati) il film è un capolavoro (semi) inarrivabile di una profondità inaudita.
A Hiroshima un uomo e una donna, diversi (ma identici per altri aspetti) hanno una relazione turbolenta in seguito all’accavallarsi di sensazioni passate, future e presenti (queste ultime racchiudono le altre) che scorrono nella memoria di Emanuelle Riva (l’attrice che veste i panni della bella francese) come conseguenza del rapportarsi con Eiji Okada (l’attore che impersonifica la figura maschile del racconto). E il ripetersi, incessante e abbagliante, dei tentativi di far rimanere la donna nella terra del (non) ricordo è parallelamente il tentativo di stazionare la memoria in un punto fisso del tempo.
Il primo quarto d’ora è uno dei punti chiave nella vita artistica di Alain Resnais: documentario imponente, ordinato e senza compromessi, all’interno del quale i dialoghi squadrano ripetutamente le immagini che ci vengono sottoposte dalla messainscena. Ospedali, piazze, istituzioni di una collettività pubblica stordita-annientata dal processo troppo insaziabile dell’uomo moderno (Hiroshima come Guernica, il progresso finalizzato al male che travolge quei “tristi ma così dolci spettatori”) il cui sviluppo consequenziale rispecchia il terrore e la paura di essere, a propria volta, annullati (leggi guerra). Il tempo si ferma, sarà la prima di una lunga serie di eventi simili, per dar modo all’impasto audiovisivo di proseguire il suo corso (in)naturale. Il nome (fantasma) della città giapponese torna a ripetersi e a consumarsi nei fitti e intricati discorsi dei due giovani(non esiste nome per queste crature X e Y, ad avvalorare l’ipotesi che siano solo pedine sfruttate saggiamente e poste con cautela su un grafico spazio-temporale) , quasi ad esorcizzare l’avvento del ritorno (fantasma, anch’esso) al futuro (futuro..passato, non ha molto più molto senso questa distinzione arrivati a un certo punto dei film di Resnais) della vita a Nevers, città natale (e quindi passato, ma…vedi sopra) e culla del sogno-ricordo attaccato inesorabilmente al cammino temporale della amante. E in quella culla sono custoditi legami passati (sempre presenti, probabilmente o quasi certamente futuri, perché pur affievolendosi rimangono indelebili, inscalfibili) che vedono sovrapporsi ciclicamente (altra caratteristica dei film di Resnais, la reale possibilità di vedere un film dalla fine sovrapponendone l’inizio, in una serie infinità di ripetizione che pregiudica l’esistenza di un finale) le due identità relazionali, quella del soldato tedesco, ex perduto amor (nel senso di un amore sconvolgente ma anche interrotto, ancora una volta, dalla simultaneità del fronte bellico), e l’attuale amante nipponico, figura ambigua per quanto concerne il sentimentalismo e la passione che brucia(va) nella donna. Due giorni, in cui queste tre sagome (l’individuo femminile, e il doppio stato –passato come l’amore perso a Nevers e presente come quello ritrovato nell’amante attuale- fisico maschile)
si mescolano, si amalgamano morbidamente (nei film di Resnais il concetto di unione, di crogiuolo, non è mai interpretato come qualcosa di drastico, ma scivola lentamente e sottilmente per tutta la durata della pellicola) in un continuo-accennato (la contrapposizione di estremi differenti al fine di fare chiarezza è solo uno dei tanti simboli strutturali pescati dal catalogo di Resnais) flashback che si snoda in infinite direzioni (tutto il secondo tempo ne è la prova lampante). La foce, il risultato di questo esperimento è la degna (ma apparente) conclusione delle vicende, almeno sul piano della narrazione. In questa sessione i due attori si inseguono, si amano, si lasciano e ancora una volta si riprendono attraverso le vie illuminate (dai lampioni si, ma anche da un sublime bianco e nero gestito da un grande maestro della fotografia, Sacha Vierny, in collaborazione con il giapponese Takahasi, a sottolineare un parallelismo anche nei ruoli più tecnici) di una Hiroshima sempre sveglia, sempre vigile e illuminata, sempre attenta che il ricordo del soldato tedesco possa divenire finalmente un'unica cosa con l'uomo appena conosciuto eppure da sempre nella vita della donna. E quando l'uomo giapponese, come non mai sinonimo dell'oblio passato, dell'amore perduto, sembra ottenere la volontà della donna a restare con lui, ecco che questa svanisce (Ne siamo davvero sicuri? E soprattutto, siamo davvero sicuri che questo particolare nasconda una anche solo minima importanza?) in quella che ormai è la mattina a Hiroshima. E, una volta arrivati alla fine, si concorda che probabilmente l’affermazione più veritiera dell’opera è racchiusa nelle prime battute (inizo-fine ancora una volta scambiati sottilmente), quando il giapponese sussurra alla donna “Tu n’as rien vu a Hiroshima”. Forse lei non ha visto davvero niente, forse lei non è mai stata a Hiroshima, o forse l’oblio del ricordo non le ha mai permesso di vedere realmente. Se con questo lungometraggio Resnais compie i primi, giganti, passi verso un cinema distaccato e privo di apparente razionalità strutturale nello snodarsi dell’incipit supportato dall’elaborazione irragionevole della sceneggiatura, con il film successivo, L’anno scorso a Marienbad, il regista conclude (quasi definitivamente) ogni discorso lasciato in sospeso, destinando però sufficiente spazio all’enorme postilla che seguirà tale secondo gioiello. L’Anno scorso a Marienbad ha infatti il compito di estremizzare maggiormente gli input sferrati da Hiroshima mon amour, e per farlo si avvale di una tecnica tanto oscura quanto astratta, con lo spettatore che si chiede ciclicamente perché i sensi non siano più legati l’un l’altro.
Film indefinibile perché indefinito, buco nero che assorbe il cinema nel suo essere arte, L’anno scorso a Marienbad, che rompe ogni sorta di schema nell’approccio ragionato alla visione di un lungometraggio, è sostanzialmente un punto di non ritorno, totale. Film amato e odiato (in maniera sconsiderata in ogni caso, non esiste altro modo di rapportarsi con l’opera), studiato/criticato strenuamente per anni, vede ancora protagonisti un uomo X (interpretato da Albertazzi) e una donna Y (Delphine Seyrig) su una scacchiera temporale che collide col passare dei secondi. Realizzato con il consueto distaccamento dalla standardizzazione realizzativa-interpretativa di un lungometraggio, Marienbad è narrazione alterata su sinusoidi temporali di un cinema circolare (pellicole il cui finale può essere attaccato all’inizio all’infinito) e al tempo stesso parabola omaggistica della vita come antitesi dell’oblio accumulato nei secoli. La trama è talmente (volutamente) scarna da risultare banale, dato che lo spettatore osserva una coppia di (apparenti) sconosciuti discutere per (tanti) fugaci momenti su chi dei due abbia ragione sulla (non) constatazione di un (in)certo incontro, avvenuto un anno prima in uguali circostanze. Il pubblico capisce subito, infatti, che non è importante tanto da che parte sia la ragione sui fatti di un'ipotetico anno prima, quanto la dinamica con qui si svolgono quelli presenti e futuri, conditi da dialoghi di alto livello lessicale a simboleggiare l'ambiente aristocratico installato nel palazzo. E quando le vicende sembrano delinearsi, ecco che si piomba nuovamente nella martellante successione di costumi ritratti nei loro comportamenti tipici (le persone ai bordi delle sale che parlano di argomenti di una piattezza cercata, l'uomo che non perde mai al gioco con le carte, i tiri con la pistola nel poligono) e intrecciati dall'elegante movimento della inquadratura che spazia ora sulle accurate e rigorose stanze, ora sul carattere ostinato del personaggio maschile (senza nome, senza un'identità che lo possa collocare in un qualsiasi momento vissuto dall'altro personaggio principale).
L’ossatura originale non risiede ne in questo ne tantomeno nella critica descrizione dell’ambiente sociale inserito all’interno della sfarzesca pensione (prigione). La voce fuori campo accostata all’immagine evade dal classicismo Resnaisiano, che utilizzava questo tipo di tecnica per rafforzare la potenza visiva costruita: in questo circostanza la VFC possiede un livello narrativo personale, che si aliena dalla sequenza filmata ma paradossalmente la intensifica. Udiamo quindi questo tetro e sottile espediente descriverci accuratamente (nell’incipit il timbro e le incessanti ripetizioni delle locuzioni risultano inquietanti) prima la spigolosa architettura interna (intarsi,porte,corridoi) nella quale traspare il materialismo dell’ambiente sociale in essa instaurato per poi snodarsi a turni tra le parole dei due protagonisti. In questo ultimo caso la VFC si fonde con le voci degli attori e il ricondurre una determinata frase a un’altrettanto determinata immagine risulta estremamente difficile. La geroglificità dell’opera risiede però nella prassi (ripresa poi in Muriel, il tempo di un ritorno) con cui Resnais esplicita il precedersi ed il susseguirsi di azioni passate, presenti e future, su una complicata se pur ridotta griglia di legami interpersonali: i discorsi di una borghesia fin(i)ta, plastica e stucchevole vengono usati come rimandi al nucleo vero e proprio, al nocciolo del film, il vorticoso relazionarsi di Albertazzi e la Seyrig; le destinazioni fotografiche riccorrenti come saloni, scale, specchi rimbalzano spigolosamente nella mente dello spettatore intrecciando, insieme a un montaggio forsennato e allucinato, un simbolico loop del quale nemmeno la fine della visione è l’uscita sicura; l’anima (e l’occhio) della macchina da presa si perde nei labirintici corridoi collegati in un impianto (l’albergo) i cui settori sono nascosti nella mente del regista stesso (solo l’artista-creatore conosce la soluzione dell’enigma inventato, allo spettatore “restano” le presumibili decodificazioni del rebus). Inoltre il francese destina un calibro cruciale alle figure centrali dell’opera, abbozzando in tal modo un triangolo isoscele la cui base è formata da X e Y, i due punti-persone in costante dibattito, sormontate da un’entità superiore, il marito della donna, il vertice del poligono che sovrasta-controlla le sub-coordinate. L’uomo è si caparbio ed incaponito ma anche sensibilmente convinto della (sua personale) verità, tanto che riesce a modellare lo stato pseudo-confusionale sebbene completamente cosciente della Seyrig. Il regolare tintinnio che intercorre tra i due (mai così uniti) litiganti sfocia in crescente ambiguità/sensualità e parallelo annulamento di tali emozioni, performando un (a)simmetrico scambio di personalità irregolari inserite nella grande orgia concettuale in cui figurano tutti gli elementi fisici (l’uomo come intarso, l’anima come specchio) e psichici (non è un caso se i movimenti dei due attori non sono mai sorretti da un se pur minimo filo logico - i corpi si spostano anzi in maniera praticamente telecinetica -). Il marito (?) della donna è la figura più affascinante: sempre posta in secondo piano rispetto alla scena in corso, si affaccia solo per dimostrare consapevole superiorità in vari campi (partecipando al proprio singolare gioco di carte asserirà “posso perdere, ma vinco sempre” ) o per redarguire (ma anche qui il comportamento è eccessivamente ambiguo, quasi non curante al tempo stesso) la moglie quando sembra destinata a partire con il testardo sconosciuto (?). Le tre entità si mischiano e si avvicendano nel cuore dell’imponente ed inscalfibile palazzo, sconfinando però talvolta nel metafisico (le ombre delle piante in esso cosparse ordinatamente non vengono riflesse al contrario di quelle umane) giardino, mondo distaccato dalla’lbergo-pianeta. In esso la coppia principale si apparta timidamente, riscopre particolari fondamentali della pseudo-relazione vissuta l’anno prima (e l’anno prima ancora, e ancora, la storia può essere riavvolta incommensurabilmente) e stipula le clausole per il futuro legame (esisterà mai?), la vita successiva seguente l’utopica fuga dal passato/presente/prigione.
Se L’anno scorso a Marienbad è entrato di diritto nella storia (e premiato con il Leone d’oro 1961) è anche grazie al culto, al mistero che attorno ad esso si è depositato per anni. Studiato e interpretato sino ad oggi, il mito è stato nondimeno criticato aspramente (come già successo per Hiroshima mon amour) per la sue radici puramente letterarie, commissionate stavolta a Alain Robbe-Grillet. La fotografia (Sacha Vierny) ha un peso equivalente a quello registico (intenzionalmente nullo è in questo caso l’apporto del suono di sottofondo a sottolineare un ambiente rigido, asciutto) ed è influenzata da noti indizi pittorici, spazianti dal cubismo di Picasso alla corrente più futurista per spingersi fino ai limiti del surrealismo. Pertanto ogni frame è riconducibile a un qualsiasi dipinto di Escher, e le tecniche di cui abusa il montaggio non fanno altro che avvalorare la tesi. I quadri appesi alle pareti delle sale sono a loro volta ipnotici e vorticosi, inghiottiscono la solidità ambientale e l’attenzione del testimone-spettatore. Nell’ultimo, fatale, fermoimmagine è impossibile non ricordarsi di Magritte e del suo L’impero delle luci, disarmente manifesto surrealista che nel film viene riproposto sulla facciata notturna dell’albergo, quando il ciclo è pronto a concludersi al fine di rinascere, ossessivo e interminabile, all’inizio di una (necessaria) ulteriore visione.
L’anno scorso a Marienbad è dunque un punto di non ritorno, ma l’astuzia di Resnais gli permette di introdurre la postilla (di lusso) che va a concludere la trilogia.
Si tratta di “Muriel, il tempo di un ritorno”, girato due anni dopo Marienbad (1963), dal quale estrapola e rielabora diversi concetti. Naturale risultato dell’addizione di "Hiroshima mon Amour" (il tema della guerra e dell'amore/odio documentato a cavallo tra francia/giappone/algeria) e appunto "L'anno scorso a Marienbad" (sfasamento e collasso dei piani temporali, deinterlacciamento dei dialoghi e della messainscena, rimbalzanti stacchi e cambi stilistici, situazioni concatenate e personaggi seminascosti), "Muriel ou le temps d'un retour", apparente parentesi lineare (in parte è così), è il più sottile, labirintico e stratificato gioco creativo dei tre punti concettuali che formano la trilogia del tempo. La mutante Delphine Seyrig da ricca aristocratica tormentata nel suntuoso edificio di L'anno scorso ci viene ora presentata come casalinga di mezza età, imprigionata a Boulogne, cittadina di provincia dove tutti sembrano conoscere tutti e non conoscersi affatto. Imperversa immediatamente un parallelismo generazionale vertente sull'arrivo della coppia Alphons-Francoise (dichiaratisi parenti, sono invece compagni con una sensibile differenza d'età) la quale si stabilisce a casa di Helene (Seyrig) e del figliastro Bernard. Il nucleo famigliare sembra così delinearsi, tutti i personaggi hanno caratteristiche che li rendono diversi dagli altri ma direttamente legati (basti pensare alla genetica somiglianza tra i due uomini, giovane e anziano, o a quella generazionale del ragazzo e della ragazza, per ritrovarsi in una rete che tocca tutti i punti senza esclusioni) per altri aspetti: da questo intreccio si andranno a svelare ulteriori rapporti, a poco a poco spuntano nuovi volti che siedono alla grande tavola inbastita da Resnais per le sue creature. L'uomo si confronta nuovamente (tesi evidenziata esponenzialmente nei precedenti lungometraggi) con l'ambientazione spazio-temporale (Boulogne come comprensorio presente di fredde emozioni derivanti da un passato spietato) che conferma l'ambiguità non di un determinato ambiente (come quello puramente aristrocratico di l'anno scorso) quanto di una determinata stirpe, quella umana, che inghiottisce il passato utilizzandolo spesso incoscientemente (tema dei corti, nuti e brillard, Guernica). E Muriel chi è? Nuovamente (altra caratteristica importata da Marienbad) una parte del titolo è nascosta nei discorsi e viene menzionata (quasi richiamata) nei meandri più oscuri: sappiamo infatti che è esso è il nome della (fantomatica) compagna di Bernard persa per sempre in Algeria (una relazione personale stroncata da qualcosa di troppo grande per essere controllato, come accade in Hiroshima Mon amour), forse sterminata dai selvaggi abusi dell'uomo. L'importanza di un personaggio velato (ma ad ogni modo centro nevralgico delle azioni/reazioni di tutti gli altri soggetti) come Muriel è determinante quanto i dialoghi, architettati ad hoc per spremere la rabbia (condizione imprescindibile del genere umano, direbbe ancora Resnais) dai pori di questa gente comune munita di una propria storia (passato) personale e immutabile, che vorrebbe rispecchiarsi nel presente ma che non trova le condizioni per farlo (se il passato è quasi sempre collegato al RICORDO, felice appunto perchè defunto, il presente si stringe ad altri stati psico-fisici, quasi sempre negativi): l'esito è una stremante scalata attuata per raggiungere qualcosa di irraggiungibile (la serenità - eterna? -), al quale vertice è affissa la condizione degenerante interiore di ogni minuscolo essere vivente. Succede anche alla famiglia di "Muriel, il tempo di un ritorno", dopo aver spinto troppo il pedale emotivo-relazionale: gli effetti sono differenti, ma ugualmente riconducibili allo stesso presupposto, allo stesso processo che porta la scintilla a scalfire la stasi degli eventi. Di nuovo (dopo Hiroshima e L'anno scorso) viene portato alla luce il micro/macrocosmo Resnaisiano, nel quale il singolo frame, la specifica situazione potrebbe essere copiaincollata (per quanto ne sappiamo noi della strutturazione dell'imbroglio temporale) all'infinito (un giorno è un giorno? e un secondo?) senza apparire come successione interminabile, l'atto finito che ne nasconde mille copie (varianti? Se su ogni diapositiva successiva trovassimo una differenza - pur essendo infinitesimale - il risultato sarebbe una n-esima sequenzialità divorata e profanata dall'errore), facendo tornare d'attualità il tema dello spazio-tempo come forma (im)perfetta di incalcolabile (im)precisione.
Boulogne è quindi la città Hiroshima e l'albergo di "l'anno scorso" allo stesso tempo, è ossia la medesima trappola mentale da cui è impossibile fuggire se non nel (ipotetico) finale (la fine non come atto terminale bensì come propulsione verso il futuro - sappiamo infatti che la donna parte da Hiroshima come la figura X dall'albergo , qui sarà Alphouns a farlo -) ma è anche lo specchio del ricordo (truce, tormentato, sorretto dalla crudeltà di scene indelebili) che puntualmente si frammenta sull'inerme animo umano. Il tempo è poco/infinito, il trascorrere qualche giorno è in realtà il sopravvivere per infinite giornate (tentativi): serve a poco, ormai lo sappiamo, scandire il tempo in base ai mutamenti genetici dei personaggi (pedine) del regista, basti pensare all'inossidabilità dell'uomo e della donna di "L'anne derniere" che si ripropongono, inscalfibili dal e nel tempo, ogni anno nello stesso periodo (??) all'interno della suntuosa dimora, o ai cambiamenti evidenti nel giro di pochi giorni (ore?anni?) trascorsi a Boulogne da Alphouns (sarà proprio la compagna Francoise a fargli notare il fatto : "Sei diventanto più vecchio da quando siamo qui" - senza però mai far riferimento a un periodo preciso e soprattutto finito). La cura con cui vengono descritti i personaggi è estremamente particolare nel proprio corso, per certi versi maniacale (l'insicurezza della Seyrig che si incanala nelle esigenze relazionali e psico-fisiche – rapporti umani, denaro - , la chiara determinazione di Kérien-Alphouns, la sfacciata onestà di Bernard e la smania giovanile di Françoise, a loro volta microcosmi dal profilo noto che si incastrano con quello altrui nella più tipica rappresentazione di interlacciamento esistenziale) e per altri sfocata, volutamente imprecisa e confusionaria (è il caso di quasi tutti gli altri personaggi che non rientrano nella cellula semi-famigliare dei quattro attori principali). Si plasmano in ogni caso diversi paradigmi di meta-cinema libero e personale, il cui esempio più evidente (il giovane Bernard) rappresenta anche in parte Resnais stesso: Bernard filma, documenta, rinchiude ricordi e sensazioni (sia parole che immagini che l'unione di entrambe, a seconda delle tecnologie utilizzate) nei diabolici strumenti-feticci, le sole armi artificiali (ma derivanti dal pensiero umano) per fermare la cinica avanzata dell'eterno lasso temporale. La moltitudine di decisioni stilistiche è sorretta dall'originale e apparentemente sobria (a tratti ogni paradigma utilizzato si manifesta irrecuperabile rispetto al disegno preimpostato) costruzione tecnica: l'autore si serve infatti della garanzia di Sacha Vierny, il trasformista al servizio della fotografia, in grado di mutare i toni di Muriel (primo film interamente a colori di Resnais) in un quasi bianco e nero (cupo e insaziabile come quello adottato nei due precedenti capitoli) di straziante malinconia, per ricordare gli orrori (del passato globale) attraverso le rovine, il grigiore della provincia e della (sempre protagonista) plasticità umana. A completare il quadro (l'imprevisto gioco di parole porta ancora a considerare come tutti i film di Resnais non siano altro che "strategie implementate su magiche tele") affiora l'insieme di suoni extradiegetici curati da Georges Delerue (ora barocchi ora moderni, sempre comunque congiunti con estrema efficacia e consapevolezza filmica all'immagine) i quali inizialmente appaiono amalgamarsi in modo puro e normale ma che scopriamo prendere rapidamente il sopravvento sull'aspetto visivo. Il ritmo è perciò presto scandito dai timbri e dalle musiche, gli stacchi (che spesso calzano l'identica frequenza usata nell'alternare campi lunghi a primissimi piani) e le dissolvenze (poche) hanno nuove prerogative in funzione del sonoro. Gli strumenti impiegati per legare tale vasta e complessa pila di eventi in maniera originale sono pertanto quelli collaudati precedentemente dall'autore, che raggiunge con Muriel la maturità definitiva e consacra i tre (o uno sintatticamente grande e completo) film-tasselli nella storia di un cinema affascinante e irraggiungibile, figlio del teatro, della letteratura e delle arti figurative, il quale però non rinuncia mai a soffermarsi sulla condizione umana nel momento in cui essa viene attaccata da forze preponderanti e inaccertabili. L'unica via d'uscita, direbbe Resnais, dal caos evolutivo propagato dalle diverse disposizioni nodali (passato-presente-futuro), è perciò l'identificazione di tale schema attraverso l'irrazionale potere dell'arte, il quale non muore al tramonto ma si consolida e si rinforza ad ogni nuova alba.
Quel che resta del creato
Era francamente impensabile che Alain Resnais, dopo una lavorazione da brivido durata sei anni (di sacrificio e di meritata soddisfazione), potesse continuare a produrre simili articoli, non tanto per livello qualitativo quanto per la scelta argomentativa da percorrere. Tre anni dopo Muriel, ou le temps d’un retour (1966) il regista firma l’ennesima opera sulla guerra, tema che diventerà caposaldo della sua opera omnia (salvo rare eccezioni). Il film in questione è La guerre est finie (La guerra è finita), prima collaborazione con i dialoghi di Jorge Semprun e ambientanto al tempo stesso delle riprese, l’opera focalizza l’occhio sulle vicende di Diego, militante spagnolo stabilitosi a Parigi che si confronta con il clima dei giovani militanti di sinistra. In quello che è sicuramente il risultato più lineare nel percorso di Resnais appare anche una grande attrice appara in molti film di Bergman, Ingrid Thulin. Dopo Loin du Vietnam (lontano dal Vietnam, 1967) una produzione a più mani in collaborazione con Godard, Lelouch, Klein e Ivens di cui Resnais filma un episodio ironico e contradditorio sul pensiero intelletuale di sinistra nei confronti della guerra in Vietnam, l’autore francese si concentra, nel 1968, sul film che ritorna, nostalgico, sui vecchi temi dell’ormai classica trilogia del tempo: Je t’aime, je t’aime riflette infatti sulle possibilità offerte all’uomo dal sobbalzo creatosi a cavallo del passato con il presente. Interpretato da Claude Ridder (simbolico centro di una sequenza memorabile – quella della resurrezione spirituale-fisica dal mare – ripetuta ciclicamente nel film) e Anouk Ferjac, il film non ebbe grande successo di pubblico, anche perché come tutti i film di Resnais tenta di fare luce su l’inconnou, sull’inspiegabile. Dio viene visto come l’elemento che crea un sub- clone (umano) per far si che esso aderisca incessantemente al piano (materialistico) divino e l’uomo come la somiglianza che cerca conforto nella propria creazione.
Dopo anni Resnais torna sulla scena filmica, e in seguito a una breve parentesi aperta nel 1973, con un breve episodio del film L’An 01 sulla rottura degli schemi tradizionali (lavoro), il regista francese mischia l’eleganza scenica di Jean-Paul Belmondo a quella tecnica dei dialoghi già collaudati di Semprun. Il risultato è Stavinsky (1974), edito in Italia come Stavinsky, il grande truffatore, lungometraggio basato su scelte cronologiche apparentemente semplici che sconfianano però in flash-back e addirittura in flash-forward, evocanti il passaggio in Francia di Trotski, teorico russo di formazione marxista. L’interprete di a bout de souffle lega perfettamente con la spontanea plasticità dell’immagine, e si sposta nel corso del tempo (filmico, alterabile) seguendo tracce, ripercorrendo itinerari.
Nel 1977 è la volta di Providence, uno dei tetti più alti toccati nella totalità della produzione Resnaisiana. Il titolo è strettamente legato all’omonima città americana, luogo di nascità di Lovecraft, autore di capolavori e indiretto ispiratore del regista, che per mezzo di uno scrittore ripercorre le chiavi filologiche del pensiero autoriale stesso, partendo dalla famiglia per sbucare in un’amplia riflessione creativa. Tre anni più tardi, a cavallo del 1980, viene alla luce Mon oncle d’Amerique, saggia e cruda (se pur indiretta, in pieno stile Resnais) analisi della psiche umana a contatto con personali esigenze di sopravvivenza, non determinate da insindacabili condizioni esterne, quanto dalla voglia, dalla necessità di stabilirsi in un costante e sempre migliore clima di piacere soggettivo, quasi ad ogni costo (ritorna il motivo trainante della – difettosa ed inspiegabile - natura umana) . Il nostro cervello, sembra essere in agguato per nutrirsi delle migliori prede che capitano a tiro: la trama, che vede come figure di spicco Pierre Arditi, Nicole Garcia, Roger Pierre e Gerard Depardieu, è basata sull’abbandono delle rispettive famiglie di due amanti, che finiranno per disgiungersi (come vuole l’insoddisfatto essere umano). Mon oncle d’amerique rappresenta la via del successo per poter girare i due film successivi, entrambi comprensivi di un cast stellare e destinati (in differita di anni) a diventare capolavori per pubblico e critica. Stiamo parlando di La vie est un roman (il più famoso dei due) e l’amour à mort, che può comunque vantare grandi nomi all’interno del gruzzolo interpretante. Uscito nel 1983, La vie est un roman affianca al nome di Pierra Arditi quelli di due intramontabili figure cinematografiche, Vittorio Gassman e una giovanissima Fanny Ardant. In stile film multiplo, vengono esplicate vicende nelle quali sottostanno temi profondi come il rispetto e l’educazione dell’immaginario fanciullesco, profilate con l’abituale ironia del francese. Il castello del conte Forbek (dentro al quale egli propone ai suoi ospiti un viaggio depurativo promettente la grazia eterna affrontando un ricostituente lavaggio fisico-psichico) viene visualizzato in due diverse epoche, nel 1919 e nel 1982. L’amore della Ardant riuscirà nell’impresa vera e propria, quella di cambiare il castello in un luogo di apprendimento, vero fulcro del senso dell’opera, introducente il tema del canto e del ballo, attuato poi altri lungometraggi. L’amour à mort del 1984, invece, rievoca le tematiche contradditorie del primo Resnais, scomponendo i collegamenti tra vita e morte, amore e odio, piacere e dolore. Si serve di due coppie per porre domande esistenziali sulla reale efficacia di un amore duraturo e intenso, quasi imprigionante, a discapito di relazioni brevi e senza compromessi (e viceversa, le due coppie fanno si che questo gioco sia intercambiabile). Le musiche in questo film sono lontane, scostate ma sempre presenti, e lo stesso Resnais asserirà che “ciò che non viene detto dall’immagine o i dai dialoghi è introdotto dal sottofondo musicale”. Due anni dopo l’autore si propone con Mèlo, logorante confronto esistenziale di due realtà opposte. Il regista (e l’uomo) si interroga sulla prerogative del libero arbitrio e sull’interazione di esso quando si affiancano differenti situazioni, più o meno favorevoli. Con questo lavoro Resnais omaggia il teatro e le sue creature, dall’artificiosità agli attori, fondamentali, stessi. I want to go home, del 1989, delinea un netto confine tra Francia e USA, associando ai due stati due universi confinanti. Distrutto dalla critica, l’opera che vede Adolph Green nei panni di Joey Wellman (Wellman “l’uomo – l’americano – bravo”, leggendo tra le righe), comico disegnatore di vignette approdante in Francia con il vero scopo (il pretesto è una mostra) di ritrovare figlia e padre, che non si sono mai trovati con la cultura americana. Originale la scelta di inserire i personaggi delle vignette in determinati momenti del film, e di implementarli alla messainscena rendendoli comunicanti con il padre e la figlia. Successivo a una breve parentesi documentaristica di nome Gershwin (52 minuti, 1992), On connait la chanson (in Italia Parole,parole,parole…), girato nel 1997, rispecchia un processo stilistico di cambiamento già iniziato da altri precedenti esempi. Ritornano Pierre Arditi e Sabine Azèma (con la Ardant e la Seyrig l’attrice più amata e incoraggiata sul set dal francese) in un paesaggio tipicamente popolare attualissimo. Nella Parigi costernata di canzoni si evidenziano i rapporti di un nucleo famigliare composto da una giovane intenta a finire la propria tesi di laurea (“les chevaliers-paysans de l'an mil au lac de Paladru”, realmente redatta in quel periodo da una studentessa), dalla sorella e dal marito di questa, nell’usuale cocktail di stati emotivi cosparsi di ironia e freschezza (a volte celata dal grigiore cittadino). Infine, l’attuale ultimo lavoro del regista è un musical dal titolo Pas sour la bouche del 2003, ignorato quasi del tutto dalla distribuzione nostrana. Lavoro esperto che dimostra come anche un grande maestro (in quanto tale) non abbia paura di sperimentare, tagliare il passato, cucire un nuovo presente destinato a un futuro (tutto torna, non erano forse questi i tre stadi del suo creato più meticoloso?) ricco di impreviste svolte (senza dubbio positive, a giudicare da una carriera così maestosamente interessante), brusche dirapate o illogiche frenate, che serviranno solo ad alimentare la voglia immutabile di conoscere i nuovi orizzonti del nostro, ciclico come i suoi film, camaleontico come le sue creazioni, intramontabile come la sua arte.
© by http://www.positifcinema.com (non provate a fotterli, non scherzano)
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sandrix81
 Reg.: 20 Feb 2004 Messaggi: 29115 Da: San Giovanni Teatino (CH)
| Inviato: 26-04-2006 23:26 |
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complimenti prima di tutto.
per ora ho letto solo la prima parte. prima di proseguire voglio finire il castorino di ghezzi su kubrick, non vorrei che l'intreccio dei due mi portasse a fatidici accostamenti che spesso vengono fatti...
_________________ Quando mia madre, prima di andare a letto, mi porta un bicchiere di latte caldo, ho sempre paura che ci sia dentro una lampadina. |
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Ahsaas
 Reg.: 18 Apr 2006 Messaggi: 779 Da: Parma - India (es)
| Inviato: 27-04-2006 01:14 |
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ah cazzo quanto sò orgoglioso di Positif e dei positivisti. Grazie ancora Kies! |
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penny68
 Reg.: 14 Nov 2005 Messaggi: 3100 Da: palermo (PA)
| Inviato: 27-04-2006 12:04 |
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Non ho parole,Ugo.Già da ciò che mi avevi inviato avevo intravisto un certo spessore,ma adesso non posso far altro che continuare a leggerti estasiata.Davvero superlativo.Complimenti! |
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Kieslowski
 Reg.: 09 Mag 2005 Messaggi: 1754 Da: Reykjavik (es)
| Inviato: 27-04-2006 12:16 |
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quote: In data 2006-04-27 12:04, penny68 scrive:
Non ho parole,Ugo.Già da ciò che mi avevi inviato avevo intravisto un certo spessore,ma adesso non posso far altro che continuare a leggerti estasiata.Davvero superlativo.Complimenti!
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Grazie cara, sai che i tuoi complimenti (e mi perdonino gli altri) sono sempre i più graditi. Comunque ringrazio tutti, per me parlare di un autore che amo così tanto è venuto naturale
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kagemusha
 Reg.: 17 Nov 2005 Messaggi: 1135 Da: roma (RM)
| Inviato: 27-04-2006 12:52 |
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ma dove trovi il tempo per scrivere tutto sto pòpò di robba?
giuro di leggerlo nei prossimi mesi |
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JerichoOne
 Reg.: 06 Mar 2006 Messaggi: 3171 Da: Frittole (FI)
| Inviato: 27-04-2006 13:30 |
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Kieslowski
 Reg.: 09 Mag 2005 Messaggi: 1754 Da: Reykjavik (es)
| Inviato: 27-04-2006 13:37 |
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quote: In data 2006-04-27 12:52, kagemusha scrive:
ma dove trovi il tempo per scrivere tutto sto pòpò di robba?
giuro di leggerlo nei prossimi mesi
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se tu sapessi..
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kagemusha
 Reg.: 17 Nov 2005 Messaggi: 1135 Da: roma (RM)
| Inviato: 27-04-2006 19:28 |
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quote: In data 2006-04-27 13:37, Kieslowski scrive:
quote: In data 2006-04-27 12:52, kagemusha scrive:
ma dove trovi il tempo per scrivere tutto sto pòpò di robba?
giuro di leggerlo nei prossimi mesi
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se tu sapessi..
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dicci dicci |
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Kieslowski
 Reg.: 09 Mag 2005 Messaggi: 1754 Da: Reykjavik (es)
| Inviato: 27-04-2006 20:35 |
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quote: In data 2006-04-27 19:28, kagemusha scrive:
quote: In data 2006-04-27 13:37, Kieslowski scrive:
quote: In data 2006-04-27 12:52, kagemusha scrive:
ma dove trovi il tempo per scrivere tutto sto pòpò di robba?
giuro di leggerlo nei prossimi mesi
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se tu sapessi..
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dicci dicci
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c'ho messo tantissimo credimi
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